Il fumetto è un linguaggio privo di una vera e propria dimensione sonora percepibile, ma al tempo stesso è basato su dialoghi che ognuno può immaginare di sentire diversamente nella propria testa.

Quindi questa forma narrativa popolare, i cui eroi spesso vivono avventure a contatto con popoli diversi, dovrebbe affrontare anche il problema di come differenziare il linguaggio di tali popoli, più o meno estranei o misteriosi, realmente esistenti o immaginari, semplicemente esotici o del tutto alieni, che si dovrebbero esprimere in idiomi diversi dai personaggi che parlano la stessa lingua del lettore.
“Dovrebbero”, appunto.

Il condizionale è d’obbligo poiché molto spesso gli autori, soprattutto del passato, hanno preferito ignorare il problema un po’ per comodità e un po’ per non complicare troppo la vita al lettore stesso.

A volte agli autori basta una vignetta per riassumere un periodo di tempo in cui l’eroe apprende la lingua di un certo popolo, lingua che il lettore potrà così continuare a leggere comodamente tradotta nella propria.

Nelle storie di fantascienza la tecnologia può venire in aiuto per non far perdere troppo tempo ai protagonisti. Certi viaggiatori del tempo, come Valerian o Lilith, grazie alla scienza del futuro apprendono in pochi istanti per induzione la lingua dei paesi in cui sono appena giunti.

Alcuni autori più accurati si documentano per inserire nei fumetti frasi nelle lingue più esotiche. Per far capire al lettore ciò che si dice in una lingua straniera in tanti fumetti è uso abituale far seguire alle frasi una approssimativa traduzione tra parentesi, o in una didascalia in calce alla vignetta. Degli equivalenti fumettistici dei sottotitoli cinematografici.

Negli Stati Uniti le traduzioni sono spesso inserite tra parentesi “ad angolo” e limitandosi eventualmente a specificare di quale lingua si tratti in una didascalia all’inizio della sequenza, nel caso in cui non sia possibile capirlo subito dal contesto.

 

Linguaggi simbolici

In tanti fumetti i linguaggi alieni o stranieri sono resi con segni incomprensibili al posto delle lettere, con alfabeti diversi dal nostro, o con parole o versi senza senso, così da rappresentare simbolicamente l’impossibilità di decifrarli.

Ciò accade in certi episodi di Tintin, il cronista giramondo creato dal belga Hergé nel 1929, in cui in qualche occasione i dialoghi degli indigeni sono scritti con gli alfabeti locali, come quello arabo o indiano, e anche se i contenuti avessero un senso perfettamente corretto in quella lingua (com’è probabile, data la meticolosità documentaria di Hergé), risulta impossibile verificarlo per la maggior parte dei lettori, che così condividono con i personaggi la totale incapacità di capire le lingue in questione.

Altri esempi tipici si trovano in una storia di Topolino del 1947 disegnata per i quotidiani americani da Floyd Gottfredson, in cui appare per la prima volta l’uomo del futuro Eta Beta.

Questi è inizialmente incapace di parlare in inglese, finché non tira fuori dal suo gonnellino senza fondo un traduttore simultaneo che gli permette di parlare qualunque lingua, comprese quelle degli animali, delle piante e perfino di certi oggetti, come il legno del pavimento.
I linguaggi che ne risultano sono per noi del tutto incomprensibili e vengono resi con strani versi e simboli grafici.

Altri fumettisti hanno invece cercato di rendere comprensibili i linguaggi stranieri, usando vari sistemi.
A volte bastano parziali deformazioni fonetiche o grafiche a rappresentare convenzionalmente una lingua diversa, che sarà così compresa facilmente dal lettore, ma non dai personaggi che non la conoscono.

Autori come Al Capp nelle sue strisce quotidiane del montanaro Li’l Abner, o Will Eisner in tante storie dell’eroe mascherato Spirit, o Bonvi nella celeberrima satira militaresca delle Sturmtruppen, hanno giocato con accenti dialettali o stranieri per evocare la zona linguistica d’origine dei loro personaggi.

Hanno invece usato con ironia dei dialetti per rappresentare lingue del tutto diverse autori come Jacovitti, che ha fatto parlare in napoletano i pellirosse, o Hugo Pratt, che ha fatto parlare il veneziano alle popolazioni dell’Oceano pacifico.

Gli autori di Asterix, René Goscinny e Albert Uderzo, hanno poi utilizzato metodi diversi per rappresentare indirettamente ogni singola lingua antica parlata nella loro serie. I romani parlano in latino maccheronico e con accento italiano (che diventa romanesco nella versione italiana), i goti parlano in caratteri “gotici”, gli egizi per geroglifici, i britanni secondo le regole della sintassi inglese e così via…

Altri autori ancora possono simulare delle lingue immaginarie alternando parole incomprensibili a parole nella lingua del lettore a cui si rivolgono.
Un esempio famoso è il linguaggio che caratterizza gli Schtroumpfs creati nel 1958 dal belga Peyo.

Questi piccoli folletti blu sono chiamati Smurfs in Inglese, Schlümpfe in Tedesco, Pitufos in Spagnolo, Puffi in Italiano, Smurfarna in Svedese e Smurfen in Olandese.
In ogni lingua prendono il nome dall’immaginaria parola che usano dandole ogni volta un significato diverso, che risulta comunque chiaro al lettore dal contesto del discorso. Benché per il resto parlino in modo del tutto comprensibile, questo basta a dare la sensazione che stiano parlando in una loro lingua esclusiva.

Un altro esempio è la frase “Epluracas orega”, pronunciata da un personaggio di una storia di Cino e Franco degli anni trenta intitolata “La misteriosa fiamma della regina Loana”, per ordinare la liberazione sua e dei protagonisti. La stessa frase sarà citata da Hugo Pratt nell’ultimo episodio di Corto Maltese, come formula da pronunciare se ci si trova in pericolo…

In pratica le parole epluracas orega non significano nulla, ma suonano così bene in quel contesto da evocare indirettamente da sole l’intera lingua del popolo ignoto a cui apparterrebbero, come la frase “Klaatu barada nikto” nel film di fantascienza Ultimatum alla Terra di Robert Wise, o come la misteriosa formula magica “Anàl natràc, utvàs betòt, dokièl dienvé” nel film Excalibur di John Boorman.

E che dire di certi linguaggi tipici che sembrano appartenere solo a un singolo personaggio? Accade per esempio col balbettio del figlioletto adottivo di Braccio di Ferro che, nelle storie originali degli anni trenta di Elzie Crisler Segar fa lunghi discorsi ripetendo solo la parola glop, con il padre adottivo che lo capisce perfettamente.

Da parte sua l’uomo del futuro Eta Beta, che dal 1947 continua ad apparire saltuariamente nelle storie di Topolino, aggiunge davanti alle parole la lettera “p” (che in inglese in tal caso è muta…).

Mentre l’omino atomico Atomino Bip Bip creato da Romano Scarpa dice continuamente bip (forse per le particelle che emette mentre parla…).
Il buffo criminale Cattivik creato da Bonvi non pronuncia le finali e l’uomo di Neanderthal Java, amico di Martin Mystère, scritto da Alfredo Castelli, si esprime con inintelligibili grugniti di cui però il suo socio d’avventure è in grado di comprendere il significato.

Sono tutti modi in cui si è tentato di evocare degli strani linguaggi senza dover inventare una lingua vera e propria e permettendo sempre al lettore di comprenderli, direttamente o per interposta persona.

C’è anche chi preferisce fare le cose nel modo più difficile, per ottenere il risultato più efficace possibile. Se una lingua immaginaria sarà usata a lungo e costantemente, all’interno di una storia o una serie, in effetti può valere la pena di inventarla davvero, almeno parzialmente.

 

L’esperanto della giungla di Tarzan

Quando nel 1929 fu pubblicata sui giornali americani la versione a fumetti di “Tarzan delle Scimmie”, il romanzo di Edgar Rice Burroughs, in strisce giornaliere a puntate disegnate dal canadese Harold Foster, fu deciso di non utilizzare le nuvolette dei dialoghi e di mantenere una forma didascalica, quella che in inglese si definisce da picture book, da libro illustrato, con testi contenenti la storia originale condensata al di sotto delle vignette.

Ciò fece sì che il linguaggio delle “grandi scimmie” che avevano allevato Tarzan, teorizzato da Burroughs nei suoi romanzi e di cui lo scrittore aveva inventato relativamente poche parole, non fosse molto parlato in quella prima storia disegnata.

Per leggere una parola pronunciata da una “grande scimmia”, tratta direttamente dal romanzo, si dovettero aspettare quasi trenta puntate, ovvero un mese, quando un fratellastro scimmiesco di Tarzan è da lui costretto a dire “kagoda”.

Kagoda (arrendersi) è l’unico verbo scimmiesco citato nel primo libro di Burroughs e, com’è ovvio per una lingua semplice, resta sempre uguale senza coniugazioni. Quindi, forse anche a seconda del tono, di volta in volta può significare “ti arrendi?”, “arrenditi!” oppure “mi arrendo”, come in questo caso.

Il successo che arrise al personaggio anche sotto forma di fumetto presto comportò la prosecuzione della serie disegnata, in puntate nelle strisce giornaliere e nelle tavole domenicali, ma lo stile narrativo privo di nuvolette rimase lo stesso e sui giornali lo sarebbe rimasto per una trentina d’anni, quindi il problema di come far parlare le scimmie per il momento non fu affrontato.
Sceneggiatori e disegnatori che si alternarono nella serie si occuparono solo di raccontare e disegnare, non di far parlare direttamente i personaggi.

CONOSCI LA LINGUA IMMAGINARIA DI TARZAN?

Quando nel 1947 la casa editrice Dell Publishing decise di pubblicare sui suoi albi a fumetti storie inedite di Tarzan, e non più solo rimontaggi di episodi apparsi sui quotidiani, il disegnatore Jess Marsh e gli sceneggiatori che collaborarono con lui si trovarono in una posizione un po’ diversa dai predecessori.

Con Marsh, artista dallo stile essenziale e moderno ispirato a quello di Milton Caniff, Tarzan diventava un fumetto basato sui dialoghi inscritti nelle tipiche nuvolette. A quel punto fu necessario che Tarzan parlasse: non solo in inglese, ma anche in altre lingue.

CONOSCI LA LINGUA IMMAGINARIA DI TARZAN?

Al contrario dell’uomo scimmia monosillabico del cinema, il Tarzan dei romanzi e dei fumetti parla molti idiomi europei e africani, veri o immaginari. Di tutte le lingue fattegli parlare dal creatore Edgar Rice Burroughs, la prima e più importante era appunto quella delle scimmie…

Quelle che hanno allevato Tarzan nei romanzi sono chiamate da Burroughs scimmioni o grandi scimmie (in inglese great apes), le quali dialogano verbalmente a livello elementare.

Ciò non sarebbe del tutto impossibile in astratto, visto che alcune scimmie antropomorfe avrebbero imparato a comunicare con il linguaggio dei gesti attraverso alcuni esperimenti dei ricercatori, ma le scimmie esistenti in natura non potrebbero articolare parole come quelle immaginate da Burroughs, a causa della conformazione della laringe che permette loro di emettere solo suoni intermittenti più o meno equivalenti a delle vocali.

Il disegnatore Russ Manning dal 1967 avrebbe aggirato il problema di verosimiglianza chiarendo nei suoi fumetti che le “grandi scimmie” di Tarzan, o “scimmie grigie”, non sono scimpanzè o gorilla, ma una specie immaginaria intermedia tra le due, dotata di maggiore intelligenza (e, bisognerebbe forse aggiungere, anche con una laringe più adatta ad articolare parole).

La cosa del resto era già stata in qualche modo anticipata dallo stesso Burroughs, che nel quarto romanzo del ciclo di Tarzan fa una precisa distinzione tra la specie delle grandi scimmie chiamata nella loro lingua mangani, la specie dei gorilla chiamata bolgani, e quella degli uomini chiamata gomangani o tarmangani, a seconda che il colore della loro pelle sia nero (go) o bianco (tar).

Curiosamente però, sia nei romanzi che nei fumetti, la stessa lingua è parlata anche da altre scimmie come bertucce, babbuini e gorilla (che nella realtà non potrebbero parlare), così come da alcuni popoli immaginari, regrediti a livello semibestiale o rimasti a uno stadio preistorico, che abitano terre perdute isolate dal resto del mondo come la città d’oro di Opar.

Inoltre Tarzan usa la stessa lingua per comunicare con animali come elefanti e leoni, che pur non potendo rispondere a volte sembrano capirlo, visto che gli obbediscono. Insomma si direbbe quasi che queste scimmie parlino una specie di esperanto della giungla…

Nei suoi romanzi e racconti Burroughs aveva già introdotto vari termini della lingua delle scimmie, per lo più una lunga serie di nomi di animali: bara l’antilope, buto il rinoceronte, dango la iena, gorgo il bufalo, duro l’ippopotamo, histah il serpente, horta il cinghiale, manu la bertuccia, numa il leone, pacco la zebra, pamba il topo, pisah il pesce, sabor la leonessa, sheeta la pantera, tantor l’elefante e qualche altra parola del genere.
Inoltre aveva citato alcuni elementi naturali, come ara il lampo, goro la luna e kudu il sole.

Pochi altri termini si potevano dedurre da alcuni nomi propri scimmieschi di cui lo scrittore aveva fornito la traduzione, tra i tanti che aveva citato nel periodo in cui Tarzan aveva vissuto tra le scimmie e non solo.

Lo stesso Tarzan, nella realtà un nome zingaro, nella finzione romanzesca è il primo termine della lingua delle scimmie citato da Burroughs, essendo composto dalle parole tar (bianco) e zan (pelle), ovvero “pelle bianca”, secondo una sintassi del tutto simile a quella inglese che pone l’aggettivo prima del verbo.

Ma a parte un altro paio di nomi come Tub-Lat (Rotto-Naso) e Zu-Tag (Grosso-Collo) e il nome dato al figlio di Tarzan, Korak (Uccisore), di tutti gli altri nomi di scimmie che pure dovevano avere qualche significato, né lo scrittore originale né autori successivi hanno dato spiegazioni.

Solo dal nome della madre adottiva di Tarzan, la scimmia Kala, furono fatti poi derivare i termini kalan (femmina), kalu (madre) e kal (latte), probabilmente solo perché Burroughs nel romanzo si riferiva a lei chiamandola Kala la femmina, anche se femmina e maschio erano tra le poche parole che nella lingua immaginata dallo scrittore già esistevano…

Tra parentesi, tutti i nomi scimmieschi, anche se finiscono con “o”, “a”, “i”, non sono maschili né femminili, né singolari né plurali. Tutte le parole sono neutre e restano invariate al singolare e al plurale.

Per indicare il genere si possono usare i termini bu (maschio) e mu (femmina), citati da Burroughs nei racconti. Per esempio facendo precedere da bu la parola balu (bambino, figlio, cucciolo), si forma l’espressione bu-balu (bambino maschio).

Può anche darsi che bu e mu siano aggettivi e le successive parole per maschio e femmina, atan e kalan, siano dei sostantivi, ammesso che le scimmie possano distinguere le due cose.

È poi forse superfluo dire che le scimmie, anche se grandi, non usano per niente né articoli né preposizioni e nemmeno pronomi… Quindi la famosa e ingenua frase “io Tarzan, tu Jane” dei film, che nei romanzi non esiste, Tarzan non avrebbe saputo pronunciarla prima di aver imparato qualche lingua umana.

Tra le poche altre parole nella loro lingua apparse nei racconti di Burroughs, c’è il suono onomatopeico dum-dum, che è come dire tam tam e che letto all’inglese si pronuncia quasi esattamente allo stesso modo.

C’è poi la parola hu, ovvero sì, probabilmente l’unica di questa lingua che anche delle vere scimmie potrebbero emettere. Infatti la si sente ripetere spesso, chissà poi se con lo stesso significato, nel film “Greystoke – La leggenda di Tarzan signore delle scimmie”, una pellicola del 1984 ispirata al primo romanzo del ciclo con relativa fedeltà ma anche con ambizioni di realismo, cosicché lì le scimmie non usano la lingua immaginata da Burroughs e si limitano a ripetere i loro consueti vocalizzi inarticolati.

C’è infine il grido di avvertimento kreeg-ah! (pericolo-attenzione!) ovvero “attenzione al pericolo!”, che nelle storie disegnate è usato spesso, sia come consiglio che come minaccia, anche deformato in vari modi. Ma per quasi tutto il resto di questa lingua si sono dovuti aspettare i dialoghi all’interno degli albi a fumetti…

Il linguaggio delle grandi scimmie venne usato nelle storie a fumetti disegnate da Jess Marsh e pubblicate dalla Dell fin dal primo episodio inedito apparso direttamente in albo, “Tarzan and the Devil Ogre” (Tarzan e l’orco diabolico) pubblicato nel 1947 sull’albo Four Color n. 134, in cui non si capisce bene perché le grandi scimmie erano diventate delle scimmie bianche (infatti chiamavano sé stesse tarmangani come gli uomini).

È chiaro che il loro linguaggio fu basato sui libri di Burroughs, ma molte parole sembra siano state inventate nei fumetti. Nelle storie disegnate da Marsh, le pur approssimative traduzioni che nelle nuvolette seguono tra parentesi dopo le frasi in lingua scimmiesca e la sostanziale coerenza che questo linguaggio immaginario ha mantenuto da un albo all’altro e da un decennio all’altro, dimostrano che non si tratta di parole inventate ogni volta a caso, ma di una vera e propria lingua.
Gli sceneggiatori si erano certo preparati un piccolo vocabolario “Scimmiesco-Inglese” per usare sempre le stesse parole per gli stessi significati.

In quel primo episodio le scimmie di Tarzan usano termini come atuk (pace), bahno (dimenticare), dando (fermo, fermarsi, restare), gom (correre, fuggire), gra (aiutare), rand (indietro), unk (andare, muoversi), vando (bene, buono, evviva), wala (nido, casa, capanna), yato (vedere, guardare, cercare), yo (amico), yud (venire), yuto (tagliare, liberare), molte delle quali saranno usate ancora dagli autori degli anni sessanta e settanta.

Sugli albi degli anni cinquanta della serie di Tarzan, che dopo due numeri di prova era diventato titolare di una propria testata bimestrale dal gennaio 1948, apparivano spesso dei piccoli dizionari illustrati “Scimmiesco-Inglese” con i termini più vari, come gugu (davanti), hul (stella), kambo (giungla), kas (saltare), neeta (uccello), sopu (frutto)…

Intanto le grandi scimmie cambiarono colore, diventando prima brune e poi grigie, colore che sugli albi a fumetti rimase la loro caratteristica, poi esportata da Russ Manning anche sui quotidiani.

In particolare avevano dovuto essere inventati un po’ di verbi scimmieschi, che erano quasi del tutto assenti nei romanzi.
Ma le parole delle scimmie si usano indifferentemente come nomi, verbi o avverbi senza bisogno di desinenze, per cui molte indicano sia una cosa che l’azione corrispondente, come b’wang (mano, portare), kob (colpo, colpire), jabo (riparo, nascondere), lat (naso, annusare), nala (su, alzare), nur (bugia, mentire), ud (bevanda, bere), utor (paura, temere), yad (orecchio, ascoltare), yuto (taglio, tagliare), zut (fuori, uscire).
Le coniugazioni non esistono per niente, il ché semplifica di molto le cose…

Naturalmente poiché gli autori sono americani certe espressioni seguono la sintassi inglese, come yud rand (venire indietro) che significa anche tornare, equivalendo perfettamente all’inglese come back.

Visto che il vocabolario delle scimmie restava comunque piuttosto limitato, seguendo l’esempio di Burroughs furono anche formate molte parole composte per descrivere cose o concetti più complessi, attraverso suffissi a cui si possono poi aggiungere altri suffissi ancora, un’altra cosa in comune con l’esperanto…

Una delle parole composte più usate fin dal 1947 fu bundolo, un termine che molto spesso le grandi scimmie e lo stesso Tarzan gridano in battaglia, come un vero e proprio urlo di guerra. È composto da bund (morto, morire) e olo (lottare) e si può tradurre “lottare a morte”, attaccare, o semplicemente uccidere.

Unk-nala (andare-su) indica l’azione più comune per le scimmie, arrampicarsi. Le grandi scimmie di Tarzan si differenziano nettamente dai gorilla anche perché, nonostante la loro mole, si arrampicano sugli alberi.

Un esempio di come le parole delle scimmie possono innestarsi l’una sull’altra è dato proprio dai termini composti a partire da den (albero). Da questo deriva prima balu-den (figlio-albero o albero piccolo, cioè ramo) e poi pand-balu-den, (ramo del tuono, cioè fucile) e ry-balu-den (ramo curvo, cioè arco).

Altre parole composte sono gu-mado (in pancia-zoppo), che significa malato o ferito, kree-gor (pericoloso-grugnito) che significa urlo, tar-bur (bianco-freddo) che significa neve, wa-usha (verde-vento) che significa foglia.
Invece il termine gree-ah (amore, amare, ammirare) forse può essere interpretato alla lettera come “attenzione alla bellezza”, visto che kreeg-ah è “attenzione al pericolo”, sempre che gree significhi bellezza…

Il suffisso zu (grosso) compare in espressioni come zu-vo (grosso-muscolo, cioè forte), zu-kut (grosso-buco, cioè caverna), zu-gash (grosso-dente, cioè lunga zanna, coltello), zu-gor (grosso-grugnito, cioè ruggito).
Invece il termine opposto eta (piccolo, poco) è usato in parole come eta-gogo (poco-parlare, cioè sussurro), eta-koko (poco-caldo, cioè tiepido), eta-nala (poco-su, cioè basso), etarad (piccola-lancia, cioè freccia).

Il rafforzativo eho (molto) dà luogo a termini come eho-dan (molto-pietra, cioè duro), eho-kut (molto-bucato, cioè profondo), eho-lul (molto-acqua, cioè bagnato), eho-nala (molto-su, cioè cima).

L’analogo suffisso ho (molti) indica quasi un plurale, ovvero un gruppo di tante unità. Così fogliame è ho-wa-usha (molte-foglie), foresta ho-den (molti-alberi), villaggio ho-wala (molte-case), tribù ho-hotan (molti-clan).

Certe parole altrimenti inesistenti si formano aggiungendo il suffisso di negazione tand (no, non, senza) al loro contrario, come tand-ho (non-molti, pochi), tand-lan (non-destra, sinistra), tand-litu (non-acuto, ottuso, stupido), tand-lul (senza-acqua, asciutto), tand-nala (non-su, giù, abbassare), tand-panda (senza-rumore, silenzio, pace), tand-popo (non-mangiare, digiunare), tand-ramba (non-giacere, svegliarsi, alzarsi), tand-unk (non-andare, restare), tand-utor (senza-paura, coraggio, coraggioso), tand-vulp (non-pieno, vuoto).

Il suffisso b’ indica poi un elemento attaccato o intorno a qualcosa. Così da wang (braccio) deriva b’wang (mano), da yat (occhio) deriva b’yat (testa), da zan (pelle) deriva b’zan (peli, capelli), da zee (gamba) deriva b’zee (piede), mentre abu (ginocchio) e bandl (gomito) non sono in relazione con altre parti anatomiche.

Di una parola particolare come por (compagno, nel senso di partner sessuale) si può specificare il genere distinguendo tra por-atan (compagno-maschio, “marito”) e por-kalan (compagna-femmina, “moglie”). Anche il genere dei fratelli si può specificare. Aggiungendo al neutro balu (bambino, figlio) il prefisso ao (ragazzo) si ottiene il maschile abalu (ragazzo-figlio, fratello), mentre il femminile è za-balu (ragazza-figlio, sorella).

Meno chiaro è il significato della desinenza do. Forse significa imitare, diventare, o fare, come in Inglese. In tal caso da dan (pietra) verrebbe dan-do (fare o imitare la pietra, cioè star fermo), da gund (capo) potrebbe venire gando (fare o diventare il capo, cioè vincere), da kor (camminare) verrebbe kor-do (fare o imitare dei passi, cioè ballare, danza) e da van (bene) deriverebbe van-do (fare bene, o andare bene, cioè buono).

Altre parole sembrano derivate l’una dall’altra senza regole precise, ma è chiara la relazione tra termini come ala (sollevarsi, sorgere) e nala (su, alzare), amba (cadere) e ramba (giacere, dormire), kos (nemico) e kob (colpire), lana (aculeo) e lano (zanzara), pand (tuono) e panda (rumore), po (fame) e popo (mangiare), rem (prendere, catturare) e ret (bloccare, legare), ugla (odio) e ungla (odiare), wang (braccio) e yang (nuotare), wa (verde) e m’wa (blu), wo (questo) e wob (quello), yat (occhio) e yato (guardare), yel (qui) e yeland (là); mentre argo (fuoco), aro (lanciare) e arad (lancia) si direbbero essere derivati tutti da ara (fulmine).

Invece non sono in relazione termini contrapposti come adu (perdere) e gando (vincere), rep (vero) e nur (bugia), sord (cattivo) e vando (buono), zor (dentro) e zut (fuori). Anche tand (no) è giustamente del tutto diverso da rak, che col tempo prese piede al posto di huh per significare sì. In questo e pochi altri casi fu inventato un termine già esistente, cosicché alle grandi scimmie non manca neppure qualche sinonimo.

Negli albi di Tarzan degli anni cinquanta per la verità questa vera e propria lingua non era sempre sfruttata. In molte storie era tradotto direttamente in inglese la maggior parte di ciò che dicevano le scimmie, che tra l’altro, dato lo stile essenziale di Jesse Marsh, a volte erano disegnate in modo un po’ approssimativo.

Con il tempo il suo modo di disegnare si fece più realistico e ricco di dettagli. All’inizio degli anni sessanta le grandi scimmie erano tornare a parlare un po’ di più nella propria lingua, almeno all’inizio di ogni frase. Infatti più era realistico il disegno, più c’era bisogno di farle parlare in modo non umano, per rendere il tono delle storie plausibile.

Nello stesso periodo anche sui giornali le strisce e tavole di Tarzan, allora disegnate da John Celardo, cominciarono a essere pubblicate non più con le didascalie ma con le nuvolette dei dialoghi.

Nel 1965, a causa di problemi di salute di Marsh che morì l’anno seguente, toccò a Russ Manning subentrare come disegnatore titolare degli albi di Tarzan, di cui divenne ben presto uno degli autori più importanti.

Manning collaborava alla testata di Tarzan realizzandone personaggi secondari fin dal 1952 e diventò il nuovo artista della serie principale a partire da una storia sceneggiata da Gaylord DuBois che condensava in venti pagine una nuova versione del primo romanzo di Tarzan.

I suoi disegni imposero uno stile ancora più realistico e preciso e anche le scimmie si fecero ora molto più verosimili. Mantenere nettamente separato il linguaggio umano dal loro, che essendo semplice poteva passare per una serie di grugniti, si rendeva a questo punto ancora più necessario, per cui le traduzioni simultanee erano ora sempre inserite tra parentesi.

L’uso abituale della lingua delle scimmie, che è poi anche quella della città di Opar, fu introdotto da Manning anche nei fumetti di Tarzan pubblicati dai giornali dopo che divenne autore dei testi e dei disegni delle strisce giornaliere, dal 1967 al 1972, e delle tavole domenicali, dal 1968 al 1979, due anni prima della sua morte.

Nelle storie di Manning spesso Tarzan pronuncia parole delle scimmie inframmezzate a quelle umane, anche se non sono presenti degli animali. Soprattutto se si trova nel bel mezzo dell’azione, il che è del tutto naturale trattandosi della sua lingua madre.

CONOSCI LA LINGUA IMMAGINARIA DI TARZAN?

A quel punto il linguaggio delle scimmie era così conosciuto dai lettori abituali che a volte Manning non si curava più neppure di tradurlo. Anche se non è stato lui a inventarlo, si può dire che nelle sue storie lo abbia un po’ affinato, usando espressioni come yuto thub (ferire il cuore) o bundolo thub (uccidere il cuore) per dire “far soffrire”

Al tempo stesso limitò l’uso delle parole composte, mantenendo giustamente la lingua scimmiesca sul piano più semplice. Quanto agli albi di Tarzan, a fine anni sessanta, rimasti orfani dei disegni di Manning, passarono alla Dc Comics e furono affidati a Joe Kubert.
In quel periodo fu pubblicato un vocabolario di quattro pagine (molto ampio, benché non del tutto completo) della lingua delle scimmie, che apparve in Italia su Tarzan Gigante n. 14 del 1973.

 

Parole da pitecantropi

Va anche detto che molte parole della lingua delle grandi scimmie furono riprese da termini appartenenti a un’altra lingua creata da Edgar Rice Burroughs per il settimo romanzo del ciclo di Tarzan, dal titolo “Tarzan the Terrible” (Tarzan il terribile).

In questo romanzo il protagonista, alla ricerca della compagna rapita, esplora una terra isolata dal resto del mondo e rimasta ferma alla preistoria, in cui sopravvivono animali di epoche molto diverse, come tigri dai denti a sciabola e triceratopi, e in cui gli esseri umani sono dei pitecantropi quadrumani con la coda.
Nella loro lingua quella terra si chiama Pal-ul-Don, “Luogo degli Uomini” (o per meglio dire “dei pitecantropi”).

Una delle prime cose che Tarzan fa all’inizio del romanzo è imparare la lingua locale, a cui l’autore dedica molto più spazio che a quella delle scimmie, e si può verificare subito che nei romanzi si tratta di due lingue del tutto diverse.

Infatti in quella delle grandi scimmie gli uomini bianchi e neri si chiamano rispettivamente tarmangani e gomangani, figlio si dice balu, leone si dice numa, il Sole si chiama kudu e la luna Goro. Nella lingua di Pal-ul-Don invece gli uomini bianchi si chiamano ho-don e quelli neri waz-don (sempre con l’aggettivo che precede il nome come in inglese), figlio si dice dor, leone si dice ja, il sole si chiama as e la luna si chiama bu, una parola che nella lingua delle scimmie significa invece maschio.

In origine non c’era insomma nessun legame tra i due idiomi, molto diversi anche nella grammatica, poiché quello di Pal-ul-Don aveva almeno un articolo determinativo, jad, e almeno una preposizione, ul (di).

Nonostante ciò gli autori degli albi di Tarzan, tra gli anni quaranta e sessanta, integrarono la lingua delle scimmie anche con parole appartenenti alla lingua di Pal-ul-Don, come a (luce), bal (dorato), bar (duello, battaglia), ben (grande), gund (capo, re), guru (terribile), jar (strano), pal (luogo), pastar (padre), so (mangiare), tor (bestia), ved (monte), xot (arrivare).

Molti termini di Pal-ul-Don erano parti di nomi a cui Burroughs non aveva attribuito un significato, ma nei fumetti assunsero un senso preciso passando nella lingua delle scimmie, che si arricchì così anche di parole come at (coda), den (albero), es (ruvido), ko (potente), lot (faccia), lu (fiero, feroce), pan (morbido), sat (coperta, coprire, chiudere), tan (guerriero), tu (brillante).

Per lo più i significati dati a tali parole sono abbastanza coerenti con i soggetti a cui erano attribuiti in origine.

Per esempio Ko-Tan (Potente-Guerriero) era il re di A-Lur (Città Lucente), la capitale degli ho-don, Lu-don (fiero-uomo) era il locale gran sacerdote, Om-At (lunga coda) e Es-Rat (ruvida-coperta) erano due waz-don che si contendevano il comando di una tribù, Pan-At (morbida-coda) era la ragazza di uno di loro e così via…

Molte di queste parole da pitecantropi, come dan (roccia, pietra), dak (grasso), kor (cammino, camminare), lul (acqua), mo (corto), om (lungo), pal (luogo), pele (valle), ta (alto), si inserirono così bene nella lingua delle scimmie da originare rapidamente a loro volta anche molte parole composte.

Parole come bo-pele (piatta-valle, cioè savana), dan-sopu (roccioso-frutto o frutto di pietra, cioè noce di cocco), dak-lul (grassa-acqua, cioè lago), ga-lul (rossa-acqua, cioè sangue), gom-lul (acqua che corre, cioè fiume), lul-kor (camminare in acqua, cioè navigare o nuotare), mo-kor (corto-cammino, cioè vicino), om-kor (lungo-cammino, cioè lontano), om-tag (lungo-collo, cioè giraffa) ta-pal (alto-luogo, cioè collina), zu-dak-lul (grosso-lago, cioè mare, oceano).

Il significato di kor fu modificato rispetto a quello che aveva nel romanzo. In origine voleva dire gola, nel senso di stretta zona di terreno percorribile, e indicava i territori dominati dalle varie tribù di pitecantropi, come Kor-ul-Ja (Gola dei Leoni) o Kor-ul-Lul (Gola dell’Acqua). Ma si sa che le scimmie danno alle parole significati ampi, senza distinguere nomi e verbi, quindi è comprensibile che per loro kor significhi camminare.

Intorno al 1950, con l’apparizione della terra perduta di Pal-ul-Don sugli albi a fumetti di Tarzan, iniziò a verificarsi anche l’inverso e la parola delle scimmie yo (amico) passò a sua volta nella lingua preistorica. Ma sulle pagine disegnate da Jess Marsh i popoli preistorici persero coda ed estremità da scimmia e la lingua dei più evoluti fu per lo più tradotta direttamente in Inglese, mentre ai meno evoluti, i tor-o-don (gli uomini bestia), i soli a conservare qualche tratto scimmiesco, fu fatta parlare la stessa lingua delle grandi scimmie.

Invece a partire dal 1967, con una nuova riduzione a fumetti disegnata da Russ Manning del romanzo “Tarzan il terribile”, gli abitanti di Pal-ul-Don furono rappresentati come veri e propri pitecantropi caudati che parlavano una lingua in qualche modo diversa, più o meno come accadeva nel libro di Burroughs.

Rimasero infatti varie differenze tra la lingua delle scimmie e quella dei pitecantropi. Questi ultimi hanno anche una parola, Otho, che significa Dio, un’idea che le scimmie non sanno concepire.
Allo stesso modo, a differenza delle scimmie che non sanno contare, i pitecantropi hanno delle parole per indicare i numeri, come adenen (cinque), l’unica che conosciamo perché Burroughs l’ha citata nel suo romanzo

Un’altra differenza tra le due lingue è il plurale. A Pal-ul-Don secondo Burroughs si ottiene raddoppiando la lettera iniziale delle parole, per cui il plurale di don (uomo) è d’don e si legge dàdon. Ma questa forma ideata dall’autore è rimasta solo sulla carta, visto che è descritta in una sua nota, mentre nei romanzi e fumetti di Tarzan non è mai usata (nei fumetti originali il plurale viene indicato all’Inglese, aggiungendo una s finale).

In ogni caso, quando dal 1968 Russ Manning fece ritornare più volte Tarzan a Pal-ul-Don nelle strisce scritte da lui stesso, mantenne la lingua di quella terra perduta distinta da quella scimmiesca, facendo pronunciare ai pitecantropi parole come an (lanciare, colpire), ont (prendere, portare), pala (salvare), panta (donna), raka (salire), sa (no, senza), sats (parlare, dire), ston (venire), un (occhio, guardare, cercare), v’rar (qui), vro (legare), parole ben diverse da quelle inventate per far esprimere concetti simili alle grandi scimmie.

Si può anche notare che, a differenza delle scimmie che chiamano mangani sia i maschi che le femmine e devono usare aggettivi per specificarne il sesso, i pitecantropi hanno una parola specifica per dire donna, che sembra composta da pan (morbido) e ta (alto), come dire alto-morbido, forse con riferimento ai seni…

Manning cita anche le espressioni originali di Pal-ul-Don con maggior precisione di quanto avesse fatto lo sceneggiatore della versione a fumetti di “Tarzan il terribile”, riportando ora correttamente i termini Jad-ben-Otho (il grande Dio) e Dor-ul-Otho (figlio di Dio), che in quella storia da lui stesso disegnata erano invece stati contratti in Jadotho e Dorotho.
Altre parole composte sono per esempio jar-don (strano-uomo, straniero), bar-dan (pietra da battaglia, clava) e bar-an (lanciarsi in battaglia, attaccare), che gli ho-don usano come grido di guerra e che in pratica è l’equivalente nella loro lingua della parola scimmiesca bundolo.

Data la natura primitiva di entrambe le lingue, ciò che queste hanno in comune è l’assenza di qualsiasi tipo di coniugazione dei verbi, che restano sempre uguali senza distinzioni né di persona né di tempo, e anche l’assenza di pronomi. Se si vogliono indicare dei soggetti o dei complementi oggetti, si devono usare dei nomi propri o i nomi generici della specie o razza a cui ognuno appartiene.

Riguardo a Pal-ul-Don, Russ Manning introdusse anche nuove idee e usanze. Per rendere più plausibile una simile terra preistorica in mezzo a un’Africa ormai totalmente esplorata, elaborò la teoria che quella e altre terre del passato delle storie di Tarzan vengano raggiunte attraverso un passaggio nel tempo che collega le diverse epoche.

Fa poi cavalcare ai waz-don i grandi mammiferi preistorici indricotherium, che loro chiamano ben-ko (grandemente-potenti, potentissimi), mentre agli ho-don fa montare i triceratopi, che loro chiamano gryf.
Questi grandi rettili dai tre corni nel romanzo di Burroughs erano invece cavalcati solo dai tor-o-don, a cui Manning continua a far usare oltre a vocaboli di Pal-ul-Don anche molte parole tipiche delle grandi scimmie, disegnandoli come esseri più vicini a degli australopitechi che a degli uomini.

Approfittando del fatto che Tarzan e suo figlio Korak parlano perfettamente la lingua di Pal-ul-Don, Manning tenderà ad accantonare il linguaggio dei pitecantropi, traducendo tutto ciò che dicono, salvo ricominciare a farli parlare la loro lingua quando giunge tra loro qualche nuovo visitatore dal presente. Infatti fa tornare varie volte Tarzan in quella terra, di cui nel 1969 inventò un nuovo popolo, gli uomini alati, che parlano una lingua indecifrabile del tutto diversa, simile a fischi di uccelli.

Anche altri strani popoli tratti dai romanzi di Tarzan scritti da Burroughs che non vivono a Pal-ul-Don, come gli uomini pazzi della città di Xuja o i minuscoli uomini formica, parlano ognuno una propria lingua completamente originale e indipendente, di cui nei fumetti disegnati da Manning vengono dati in più occasioni dei piccoli saggi, ma senza che ne siano quasi mai chiariti con molta precisione i significati.

 

(Da Segreti di Pulcinella).

 

 

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