CINECITTÀ, NASCITA E FALLIMENTO DI UN SOGNO ITALIANO

“La prima volta che ho udito questo nome, Cinecittà, ho percepito che quella era la città dove avrei voluto abitare, e che avrebbe fatto parte della mia vita. Per me è il posto ideale, il vuoto cosmico prima del Big Bang”.
Federico Fellini

 

Cinecittà dista nove chilometri dal centro di Roma. I lavori per costruirla iniziano il 26 gennaio 1936 e gli studi vengono inaugurati il 28 Aprile 1937, alla presenza di Benito Mussolini.
La Direzione Generale per la Cinematografia è affidata a Luigi Freddi, è sua l’idea di costruire Cinecittà come la più grande città del cinema in Europa e per questo affida il progetto all’ingegnere Carlo Roncoroni e all’architetto Gino Peressutti.

I lavori interessano una superficie di seicentomila metri quadrati, che viene adibita a sede di oltre settanta edifici e sedici teatri di posa. Cinecittà nasce come una vera e propria città del cinema con quarantamila metri quadrati di strade e piazze e più di trentacinquemila metri quadrati di giardini.
Centinaia di operai e reparti tecnici lavorano all’interno negli enormi stabilimenti per la produzione e realizzazione di film. La qualità e la quantità delle pellicole migliora velocemente e nel 1943, dopo solo sei anni di attività degli studi, vengono realizzati circa trecento lungometraggi malgrado la guerra.

Il regime fascista prima ancora della nascita di Cinecittà aveva manifestato grande attenzione nei confronti del cinema, soprattutto per favorire la nascita di un’industria cinematografica nazionale nel momento del passaggio dal muto al sonoro, assicurando protezione e risorse a un mercato dominato dalla majors americane che dal 1925 in poi aprono filiali in Italia.

Nel 1926 nasce la Federazione Cinematografica Italiana, presieduta da Stefano Pittaluga, un abile produttore che come prima mossa chiede una legge a sostegno del cinema. Il primo intervento normativo, del 1927, prevede la restituzione ai produttori della tassa sullo spettacolo (i cosiddetti ristorni).

Ma è dopo il 1930 che lo Stato incentiva davvero il cinema, definito da Benito Mussolini “l’arma più forte”. Con una legge del 1931 vengono premiati i film secondo il successo di pubblico e viene incentivata la produzione di film spettacolari e di evasione. La legge favorisce i produttori più solidi che promuovono investimenti di lunga durata.

Nel 1933 il fascismo istituisce i “buoni di doppiaggio” a difesa della produzione nazionale. Il meccanismo prevede che per ogni film nazionale realizzato un produttore ottiene tre buoni che esonerano dal pagamento della tassa sull’importazione di film stranieri.

Nel 1934 nasce la Direzione Generale della Cinematografia, con a capo Luigi Freddi, un’organizzazione statale che coordina produzione, distribuzione ed esercizio, senza danneggiare l’industria privata. Dopo la nascita di Cinecittà, voluta dal regime e da Mussolini in prima persona, arriva la legge Alfieri (1938) ad assegnare contributi ai film nazionali e premi alle opere più valide.

Tutto questo serve a far aumentare la produzione italiana di film disimpegnati e di evasione e a porre limiti all’affluenza di prodotti americani, con un tetto massimo di duecentocinquanta pellicole all’anno. In questi anni, grazie anche a Eitel Monaco, direttore generale della cinematografia, la produzione cinematografica rimane relativamente libera dall’influenza della politica (la propaganda fascista viene riservata ai cinegiornali – NdR).

Va da sé che nel periodo 1939-1943 il cinema italiano è in espansione produttiva e tecnica, grazie soprattutto all’aiuto statale. Cinecittà produce divertimento ed evasione per un popolo che non vuol pensare ai drammatici eventi bellici. Il cinema diventa un “bisogno fondamentale”, un divertimento popolare a basso costo.

Quando re Vittorio Emanuele III dimette Mussolini per passare con gli americani, i tedeschi saccheggiano Cinecittà. Prima si tenta con scarso successo di far risorgere un impossibile cinema fascista a Venezia, poi le attrezzature requisite vengono trasferite in Germania.
In seguito gli stabilimenti cinematografici vengono semidistrutti dai bombardamenti e sono adibiti a campo profughi, ma la voglia di ricominciare è tanta e le difficoltà vengono superate.

Scacciati i tedeschi, anche se al Nord la guerra continua ancora per un anno, il 10 luglio 1944 nasce l’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini) che prende subito le distanze dall’autarchia fascista. Il cinema italiano aderisce al modello liberista ispirandosi all’esempio hollywoodiano, pure se adesso il pericolo maggiore è quello della colonizzazione.

Per tenere testa alla grande espansione cinematografica americana l’unica strada percorribile sarebbe forse quella di creare una sorta di unione cinematografica europea. Idea che rimane un’utopia irrealizzabile e si concretizza solo per alcuni accordi con Francia e Spagna.

Il cinema italiano del dopoguerra per sopravvivere ha bisogno dell’aiuto statale, pure se la contropartita è spesso rappresentata da una limitazione della libertà di espressione e da una pesante censura. In ogni caso non mancano produttori coraggiosi che finanziano progetti scomodi e osteggiati dalla censura.

La prima legge del governo democratico sul cinema (1945) sancisce che “L’attività di produzione è libera” e concede contributi ai produttori di film nazionali. I limiti autarchici fissati dal monopolio fascista cadono: appena vengono a mancare le restrizioni alle importazioni, arriva in Italia un’invasione di pellicole americane prima proibite nelle sale.

Il pericolo di colonizzazione è enorme. Per fortuna il governo italiano salva Cinecittà con la legge Cappa (1947), che impone alle sale un minimo di ottanta giorni l’anno riservati alla programmazione italiana e conferma un contributo ai produttori di film nazionali.

Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del consiglio di Alcide De Gasperi dal 1947 al 1953, cerca di assicurare al governo il controllo ideologico della cinematografia nazionale.
Durante questo periodo la legge sulla programmazione obbligatoria viene elusa senza problemi e il governo se ne disinteressa.

Il cinema americano diventa una vera e propria minaccia per Cinecittà, che stenta a decollare di nuovo. Per risolvere la situazione Andreotti studia il meccanismo del “prestito forzoso”. La legge del 1948 introduce una sorta di tassa per ogni film straniero importato, da versarsi in un fondo destinato al finanziamento della produzione nazionale.

Risorge un sistema di assistenzialismo economico e di controllo politico tipico del regime fascista, basato su una riesumazione di vecchie normative. La produzione italiana si intensifica grazie ai fondi della legge Andreotti, pure se proliferano le avventure produttive che hanno come unico scopo quello di assicurarsi i contributi.

Lo Stato ha la colpa di non controllare la qualità delle operazioni produttive, che si moltiplicano a dismisura visto che i contributi garantiti per legge assicurano sempre un guadagno. A metà degli anni cinquanta scade la legge Andreotti e, per via del vuoto normativo, c’è una crisi produttiva che investe molte case anche di un certo spessore come la Lux, la Minerva e la Excelsa.

I produttori non rischiano più capitali propri attendendo una nuova legge che fissi contributi statali e premi per la qualità artistica delle pellicole. Arriva la legge del 1956, che stabilisce contributi automatici per il cinema italiano, cento giorni l’anno di programmazione obbligata nelle sale e un prestito forzoso.
La contropartita politica è rappresentata dai maggiori controlli di legge, visto che adesso per ottenere i contributi un produttore deve presentare la sceneggiatura del film.

Durante gli anni cinquanta, Cinecittà prende per modello il cinema americano nei suoi meccanismi produttivi, ma si fa strada pure il modello “educativo” di stampo sovietico. Il cinema non deve essere solo industria, ma anche arte e cultura che diventa educazione al servizio del popolo, pure se dietro a questo paravento si nasconde una retorica inquietante. Tutto parte dall’idea ingenua che lo Stato possa essere davvero neutrale e soprattutto un buon giudice sulla qualità dei prodotti.

Nel primo dopoguerra, il cinema neorealista domina la scena sfornando molte produzioni spontanee ritenute educative. Un film come Roma città aperta di Roberto Rossellini contende il primato a Carmen di Christian-Jaque.
A Cinecittà i generi vincenti, oltre al neorealismo, sono il musicale ispirato a opere e melodrammi famosi e il filone avventuroso o romanzesco.

Nel 1947 con il boom dell’avanspettacolo nasce il fenomeno Macario (Come persi la guerra di Carlo Borghesio) e in seguito il comico prende forza con Totò (Fifa e arena, Totò al giro d’Italia…), emarginando poco a poco il neorealismo.

Alla fine degli anni quaranta il neorealismo, che ha dato prodotti come Ladri di biciclette (1948) e Paisà (1946), può dirsi un’esperienza conclusa.
Nascono i generi popolari, si fa strada il divismo (Totò, Macario, Anna Magnani) e vengono prodotti film spettacolari ad alto costo, come Fabiola di Alessandro Blasetti (1949).

Un accordo produttivo con la Francia fa nascere film importanti come Riso amaro di Giuseppe De Santis (1949), con la nuova diva Silvana Mangano. Riso amaro è un film che unisce il realismo a una narrazione ricca di effetti spettacolari.
Catene di Raffaello Matarazzo (1949), con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, rivitalizza il melodramma ispirato al romanzo d’appendice.

Nascono i primi veri produttori del cinema italiano, come Carlo Ponti, Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, che contribuiranno alla nascita di un meccanismo industriale a imitazione del modello americano.
A Cinecittà, sino alla metà degli anni cinquanta, vengono prodotti solo melodrammi, commedie del neorealismo rosa (le serie Pane, amore e… e Poveri ma belli), prodotti popolari di largo consumo interpretati da divi come Amedeo Nazzari, Totò, Silvana Mangano, Sophia Loren e Vittorio De Sica.

Tra il 1949 e il 1953 assistiamo a un rilevante sviluppo di Cinecittà, che produce un gran numero di film. Il periodo di crisi legato allo scadere della legge Andreotti (1954) è presto superato con la promulgazione di una nuova normativa e con il ritorno ai generi di largo consumo.

Si girano molte commedie e film mitologici (nel 1957 Le fatiche di Ercole di Piero Francisci fu un grande successo) che vanno incontro ai gusti del pubblico.
Nel 1958 i film americani diminuiscono la loro presenza sul territorio nazionale e l’Italia è il paese europeo più progredito e meglio attrezzato nel settore cinematografico.

Gli studi di Cinecittà, adibiti a campo profughi nell’immediato dopoguerra, riaprono nel 1948 per girare Fabiola di Alessandro Blasetti. Negli anni cinquanta Cinecittà, grazie ai capitali statunitensi, diventa una sorta di Hollywood sul Tevere e le sue potenzialità vengono utilizzate per la costruzione di grandi set come quelli di Quo vadis? (1951), diretto da Mervyn LeRoy, e di Ben Hur (1958), diretto da William Wyler.

Cinecittà ospita le cosiddette runaway productions (produzioni in fuga) che decidono di venire a girare in Italia sfruttando gli studi organizzati, il buon clima e il basso costo della manodopera. Tutto questo fa aumentare i costi al cinema italiano e occupa per mesi gli studi di Cinecittà, estromettendo di fatto le produzioni italiane.

Le runaway productions portano anche effetti benefici all’obsoleta struttura artigianale del cinema italiano. I produttori italiani cominciano a pensare a un mercato internazionale, tanto che Ponti e De Laurentiis realizzano un buon numero di pellicole con la collaborazione americana. Ulisse di Mario Camerini (1954), L’oro di Napoli di Vittorio De Sica (1954), Barabba di Richard Fleischer (1961).

Il cinema italiano cresce e nei primi anni sessanta le pellicole più viste sono di produzione nazionale. Resta il problema della distribuzione, che è sempre gestita dalle majors, e poi il fatto che non esiste un vero accordo co-produttivo con gli statunitensi.

Tra la fine dei sessanta e i settanta Cinecittà si caratterizza per una stanchezza creativa che porta al fenomeno della vampirizzazione del cinema d’autore, da un film “importante” nascono molti sottoprodotti commerciali e addirittura dei sottogeneri.

Possiamo citare l’esempio del Decameron di Pasolini, che ha dato vita a una ridda di decamerotici, film divertenti e simpatici ma spesso girati in meno di una settimana.
I film di Sergio Leone hanno fatto nascere il genere degli spaghetti-western, che ha dato al cinema italiano anche prodotti di ottimo livello.

Si affermano i generi popolari come la commedia sexy, l’horror gotico, i film legati alla popolarità di un singolo attore (Lando Buzzanca), o alla bellezza di determinate attrici (Edwige Fenech, Gloria Guida…).
Verso la fine degli anni settanta, con l’arrivo dall’America di Gola Profonda, comincia a nascere una produzione autoctona dedicata al porno.

Il cinema americano resta sempre un modello inarrivabile di riferimento e la collaborazione tra cinematografie europee non è che sporadica e saltuaria. Gli anni ottanta vedono un progressivo e inesorabile calo di spettatori, il cinema è in crisi.

Sociologi, opinionisti, giornali e riviste varie cercano di analizzare il fenomeno: l’aumento del prezzo del biglietto? la crescita dell’offerta televisiva con i molti canali commerciali che si affiancano alla Rai? la paura di uscire di casa a causa di un aumento della violenza? l’arrivo delle nuove tecnologie come il Vhs?

Solo gli spettatori motivati e benestanti resistono, mentre il consumo popolare si indirizza verso la televisione, media a buon mercato e di facile fruizione. Le sale periferiche di seconda e di terza visione chiudono sotto i colpi dei film in televisione che proliferano senza sosta.
La televisione modifica il consumo delle pellicole e la fuga dalle sale risparmia solo il pubblico giovane, più sensibile al fascino della nuova pellicola da vedere sul grande schermo.

Gli anni novanta vedono l’affermarsi del modello blockbuster d’importazione americana, un cinema che punta il tutto per tutto sull’evento, costruito facendo ricorso a tutti i mezzi pubblicitari disponibili, sulla novità da sfruttare nel più breve tempo possibile.
Il pubblico giovane del cinema odierno risponde a un richiamo forte che solo il cinema americano sa creare, con prodotti di alta forza spettacolare.

Il cinema italiano annaspa tra mille difficoltà, si riesuma persino la legge Corona del 1965, che aveva cercato di lanciare una ciambella di salvataggio istituendo il circuito dei locali d’essai a prezzi popolari, che però non è sufficiente ad arginare la crisi. Tanto più che un vero circuito d’essai nasce solo dopo il 1980 e rimane confinato a una ristrettissima cerchia di esercenti e fruitori.
L’articolo 28 della legge Corona del 1965 istituisce un fondo per i film ispirati a finalità artistiche e culturali, ma è solo un palliativo perché i criteri di selezione sono blandi e non trasparenti.

Gli anni novanta vedono due grandi produttori come Rai e Fininvest, i quali investono solo in pellicole che possono avere uno sfruttamento televisivo. Assistiamo a una presa di potere televisivo con relativa spartizione dell’etere legalizzata dalla legge Mammì. Soltanto la legge Veltroni del 1984 tenta di fare qualcosa per il cinema, pur con tutti i suoi limiti, soprattutto aprendo la strada alle prime multisale di periferia.

Nata con grandi ambizioni sul modello di Hollywood, la nostrana fabbrica dei sogni non riuscirà mai a diventarne nemmeno lontanamente una pallida alternativa. La forte concorrenza americana, l’incapacità di trovare partnership stabili nel contesto europeo e un sottodimensionamento strutturale che necessiterà costantemente dell’intervento statale, non faranno mai decollare l’ambizioso progetto.

 

Gordiano Lupi, autore dell’articolo, ha scritto “Tutto Avati”, La cineteca di Caino

 

 

Un pensiero su “CINECITTÀ, NASCITA E FALLIMENTO DI UN SOGNO ITALIANO”
  1. Un resumen muy instructivo, al menos para mí, de una parte de la historia cultural del siglo XX, y una visión muy lúcida de su perspectiva en el actual.

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