Ogni tanto mi capita di guardare su un canale Discovery la gara culinaria Little Big Italy. Il conduttore, un tizio simpatico che penso faccia lo chef, si reca di volta in volta in una diversa città del mondo per mangiare in tre ristoranti italiani consigliati da altrettanti emigrati che vivono da tempo in quella città. Vince il ristorante migliore, ovviamente.

Oltre alla qualità dei cibi, in questo programma contano il menu, che se contiene i nomi dei piatti italiani nella lingua del luogo già dà una cattiva impressione, e la fedeltà alle ricette originali italiche delle pietanze. Il ristorante che introduce variazioni in un piatto italiano classico perde un sacco di punti e il cuoco viene considerato una specie di traditore della patria.

A volte, i ristoratori còlti in fallo si giustificano spiegando che ai clienti locali, i piatti italiani piacciono di più in quel modo lì, ma non attacca: lo chef e i tre ciceroni scuotono comunque la testa delusissimi. Al massimo concedono che forse a Krasnojarsk è in effetti difficile trovare i capperi di Pantelleria e si deve usare quel che c’è, ma non cambia di molto la disapprovazione.

A parte il fatto che se uno ha un ristorante i suoi piatti deve anche venderli, e se a un texano medio piace l’amatriciana con la marmellata deve per forza servirgliela, c’è un elemento che nessuno prende mai in considerazione: per mia e non solo mia esperienza, a parità di alimento (compresa la stessa origine) la percezione del suo sapore cambia a seconda del luogo geografico in cui si vive e si mangia. Non è un fatto istantaneo, il viaggiatore occasionale non sperimenta questo fenomeno.

Vivo nel nord della Germania da parecchi anni. I primi tempi, tornando a casa dall’Italia riempivo l’automobile di pasta De Cecco, dolciumi del Mulino Bianco, vagonate di pesto Tigullio, mele renette a volontà, zucchine liguri, cipolle di Margherita eccetera. Ma con il passare degli anni quei cibi e quegli ingredienti che così apprezzavo in Italia, in Germania mi sono apparsi sempre meno invitanti.

I primi a essere dimenticati sono stati i dolciumi. Benché industriali, i biscotti Mulino Bianco e gli Oro Saiwa sono piuttosto buoni. E la pasticceria Cucchi in corso Genova a Milano è inarrivabile. Adesso quando le porto su a casa, quelle leccornie restano dimenticate nell’armadio finché scadono. Poi è toccato ai pregiati fagioli Lamon: tanto mi piacevano quando li mangiavo in Alto Adige tanto sanno di strano sul Mar Baltico. E via così. Viceversa, ho cominciato ad apprezzare cose che l’italiano medio considera aberranti come la pizza con l’ananas. E le buone birre italiane bevute a Berlino sanno di poco, mentre vado matto per la Berliner Kindl.

Ho domandato a miei conoscenti anche loro stabilmente lontani dall’Italia, i quali mi hanno detto che sì, anche il loro gusto, chi più chi meno, si è modificato.

Alcune percezioni sono diventate definitive, per esempio i fagioli Lamon non mi piacciono più e basta. Altre vanno e vengono: a Sestri Levante il risotto allo zafferano mi sembra molto più saporito che a Berlino, e quando vado in vacanza in Italia torno a preferire una birra Ichnusa o anche una Forst. Altre sono rimaste immutate: se da un lato ora mi piacciono molto i puzzolentissimi formaggi danesi o delle isole frisone, il taleggio è per me una gioia ovunque, così come gli gnocchi alla romana.

Allora, forse, non è che i ristoratori italiani all’estero sono dei traditori e che i tedeschi, gli inglesi, i fiamminghi, gli scandinavi eccetera non capiscono niente di cibo. Forse esistono fattori la cui origine non conosco che inducono il corpo ad avere gusti in accordo con il luogo, o che più in generale modificano il metabolismo. Questione di pressione atmosferica, di clima, di odore dell’aria, di temperature medie, chi lo sa.

Certo, esistono le abitudini sociali che riguardano chi in un luogo ci è nato e ci vive da sempre. Le aziende produttrici di cibo sanno bene che i gusti cambiano geograficamente: la Coca Cola americana è dolcissima perché lì lo zucchero lo mangiano a palate. Viceversa le fette biscottate tedesche non contengono quasi zucchero, penso per tradizione salutista di origine ottocentesca, mentre in compenso le torte sono burro puro, un’eredità degli inverni freddissimi che si alternavano fino a pochi anni fa. In Baviera mangiano tonnellate di Würstel e crauti, forse il corpo modifica la percezione generale in conseguenza dei litri di aceto in cui sono intrisi i crauti. Ma non è ciò di cui parlo ora.

Nella Germania del nord la maionese tradizionale è difficile da trovare, industriale o di rosticceria, esiste solo la versione con senape. Agli inizi la trovavo stucchevole, ma adesso mi sembra proprio buona, e quella pura e semplice che prendevo a Bolzano prima di passare il Brennero mi sembra una melmina untuosa. E potrei continuare con decine di altri esempi.

Insomma, se vedete un irlandese che mangia spaghetti aglio e olio con sopra del miele e dello stoccafisso, prima di schernire il suo cattivo gusto, considerate se non abbia i suoi motivi. D’altra parte i crauti serviti a Cuneo non hanno alcun nesso con quelli che trovate in qualsiasi mercato di Monaco, bombe di sapore e, come dicevo, di aceto.

Un fatto interessante: l’unico cibo che per mia esperienza mantiene per chiunque e ovunque lo stesso identico gusto è la pizza, alta o bassa che sia. D’accordo, può essere modificata localmente in modi apparentemente esotici, come nel caso della pizza Hawaii all’ananas, ma questo succede anche in Italia: andate alla pizzeria Ceppo Folle di Milano, che fa la migliore pizza alta del mondo, e vedrete che italiani da duecento generazioni si fanno mettere strati di cose assurde (tonno + capperi + prosciutto + cipolle + acciughe…) su una margherita altrimenti perfetta.

Questa sua stabilità e universalità di gusto potrebbe essere il motivo per cui la pizza è una delle poche cose italiane onnipresenti al mondo. È da notare che anche i suoi ingredienti sono onnipresenti, l’unico formaggio italiano che si trovi nei supermercati oltre le Alpi è la mozzarella (anche se perlopiù fatta in Baviera), e se da un lato a Berlino i pomodori freschi arrivano importati dall’Olanda, dall’altro i pelati in scatola sono sempre rigorosamente italiani.

Alla fin fine penso che i giudizi di Little Big Italy siano piuttosto discutibili nel principio.

(Testo e immagine Copyright © 2021 Andrea Antonini, Berlino; i marchi citati sono proprietà dei relativi produttori).

3 pensiero su “LO STRANO SAPORE DEL CIBO ITALIANO NEL MONDO”
  1. Grazie per questo intervento, davvero misurato e veritiero. In particolare, la conclusione è corretta. Una trasmissione dedicata agli chef italiani trapiantati all’estero non deve giudicarli dalla fedeltà ai piatti originali. I miei due centesimi sono questi: credo che non solo il gusto individuale si modifichi in base all’ambiente dove si vive (atmosfere odori colori sapori lingua storia diversi), ma anche che contemporaneamente il piatto stesso, le materie prime di cui è composto, si alterino irrimediabilmente se sradicate dal loro contesto originario.

    Da lombardo, ho mangiato per una vita prosciutto di Parma e vari salumi emiliani con la torta fritta. Finché, fatta l’università a Parma, non ho apprezzato gli originali (cioè, gli stessi ma in loco) al punto che non riesco più a mangiarli nella mia terra d’origine. Ora vivo e lavoro a Piacenza e non riesco più a gustare un piatto di tortellini lombardi senza pensare a quanto più buoni mi sembrino tortelli ed anolini piacentini. E viceversa, se compro un salume emiliano o un lambrusco e passo il Po, questo in automatico perde qualcosa. Non c’è niente da fare.

    Anche per questo motivo è bello viaggiare: assaggiare cucina e vino (o birra) locali, dove nascono. Esperienza assolutamente non sostituibile con un ordine online: sorry, Amazon.

  2. Condivido che in un determinato paese estero sia meglio mangiare ciò che è caratteristico di quel paese e non pretendere cibi italiani (o, peggio, terribili adattamenti locali dei medesimi) a tutti i costi! Anzi, per quel che riguarda il territorio italiano, approvo il fatto di mangiare specialità regionali nella regione d’appartenenza ed evitare le scopiazzature di altre regioni. Per tacere di quello che penso di tutti i programmi televisivi sulla enogastronomia & C., spuntati come funghi in questi ultimi anni (con qualche curiosa eccezione che stupisce anche me stesso: preferisco “Camionisti in trattoria” che trovo divertente, anche se “tamarro” e latentemente omosessuale, che programmi più blasonati – si fa per dire – e però noiosissimi e/o con conduttore palloso – vedi il figlio della Bouchet o quel biondino di cui non ricordo il nome – incapaci di tenerti almeno un pochino sveglio…. ).

  3. io vorrei aggiungere un’altra cosa.
    quando vado all’estero mangio e trovo buonissime cose che qui in italia non mangerei mai e che solo al pensiero mi farebbero vomitare.
    un bel mistero…

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