CHRISTINE MALEVRE

Christine Malevre è nata nel 1970, ha capelli biondi corti e occhi azzurri, un’aria fragile e una voce soave. Per alcuni assomiglia a una Madonna rinascimentale. A venticinque anni, nel 1995, va a lavorare come infermiera nel reparto di neurologia e pneumologia della clinica Francois-Quesnay di Mantes-la-Jolie, una cittadina a qualche chilometro da Parigi.

L’ospedale è un edificio moderno e svettante costruito di fronte a Eurodisney, il grande parco giochi di Topolino e compagni. Colpisce il contrasto tra i due luoghi: da una parte la vitalità e la gioia, dall’altra la sofferenza.

Per mesi Christine Malevre si trova di fronte a pazienti malati senza speranza di guarigione. “Mi aiuti a morire”, le chiede qualcuno sottovoce. E Christine non ce la fa più a mantenere il distacco professionale che le avevano insegnato nella scuola per infermieri.

Nel febbraio del 1997, tra i pazienti in queste condizioni comincia a passare una voce appena sussurata: “Della Madonna ci si può fidare…”. Finché i superiori notano una mortalità decisamente sopra la media nel reparto di quell’infermiera ventisettenne carina. I malati terminali hanno iniziato a morire bruscamente.

Facendo un conto si stima che, durante i turni di Christine Malevre, la mortalità aumenta del 150%. In particolare è sospetta la fine di Jacques Gutton, 71 anni. Sebbene i polmoni dell’uomo fossero allo stadio avanzatissimo di cancro, la sua morte era stata prevista dallo staff medico alcune settimane più tardi di quanto è avvenuta.

Le colleghe iniziano a dire che Christine “porta sfortuna”. L’infermiera anziana Marie-Annick, particolarmente sospettosa, inizia a controllare tutto quello che fa Christine Malevre, ed è proprio lei ad accorgersi che la collega ha iniettato una dose doppia di morfina all’ultimo paziente deceduto.

In base alla sua testimonianza, la direzione del Francois-Quesnay avvia una verifica interna e scopre altre gravi irregolarità dell’infermiera. Sospesa dal lavoro e denunciata alla magistratura, nella notte del 6 maggio 1998 Christine Malevre tenta di togliersi la vita ingerendo il contenuto di cinque confezioni di Valium, un tranquillante. Trovata priva di sensi nella vasca da bagno, viene salvata all’ultimo momento.

Una volta ristabilita, per sicurezza la tengono sotto osservazione in un ospedale psichiatrico. Un mese dopo, Christine Malevre viene arrestata perché ufficialmente sospettata di avere ucciso oltre trenta pazienti.
“Sono rimasta traumatizzata dal mio incontro con la morte”, racconta agli inquirenti, “la prima volta che ho visto un cadavere ho fatto un balzo indietro, avevo quasi paura che volesse saltarmi addosso”.

Christine Malevre confessa di avere ucciso decine di pazienti, anche se non conosce il numero esatto. Sostiene che glielo avevano chiesto loro stessi, tutti malati terminali tra i 70 e i 90 anni. “Li ho aiutati a morire per far finire le loro sofferenze”, assicura. Ha usato dosi eccessive di morfina o di cloruro di potassio, entrambe sostanze prescritte dai medici e difficili da quantificare con precisione durante l’autopsia.

Poi l’infermiera, forse consigliata dal suo avvocato, ritratta parzialmente, ammettendo solo tre omicidi, quelli nei quali è più compromessa. Un quarto paziente, aggiunge, sarebbe morto a causa di un suo errore. Numeri a parte, perché lo ha fatto? “Io credo in un Dio misericordioso”, risponde Christine, “mentre i malati mi dicevano che, azzannandoli in quel modo, per loro dio era come un lupo”.

Ha esaudito le loro preghiere con un’iniezione praticata di notte, quando aveva meno probabilità di essere scoperta. Per preparare i pazienti al passo estremo, recitava loro lunghe frasi prese da un’antologia di Hermann Hesse, l’autore del famoso romanzo “Siddharta”. Diceva loro che li aspettava la luce.
Le famiglie delle vittime negano che i loro parenti avessero mai espresso la volontà di morire. Tuttavia solo quattro di esse decidono di costituirsi parte civile nel processo contro l’infermiera.

Lo stesso viceprocuratore che dirige le indagini, Jacques Hossaert, si dice certo che Christine abbia agito per assecondare i desideri dei pazienti. “Non lo ha fatto per soldi né per interesse personale”, sostiene Hossaert, “non si può paragonarla alle infermiere criminali e sadiche che irrompono di tanto in tanto nella cronaca”.

Questo però, aggiunge il magistrato, non la salverà da un processo per omicidio volontario, un reato per il quale rischia 30 anni di carcere. Dopo la confessione, alla donna viene concessa la libertà condizionata. Il viceprocuratore non se l’è sentita di lasciarla in prigione dopo che lei gli aveva detto: “Dove vuole che fugga, assieme alle ombre delle persone a cui ho tolto la vita?”.

Alcuni colleghi di Christine, intervistati anonimamente, la elogiano: “Ha fatto quello che avremmo dovuto fare noi”. Per altri, invece, la donna aveva un rapporto morboso con le persone decedute nel suo reparto. Si occupava della preparazione dei defunti, che lavava e vestiva, e partecipava ai loro funerali, benché fossero tutte cose sconsigliate dai superiori.
Qualcuno rievoca anche la sua relazione sentimentale con un uomo gravemente ammalato di sclerosi multipla, come se le persone sofferenti avessero il potere di attrarla profondamente.

Commenti critici arrivano soprattutto dal mondo cattolico. “La pietà di Christine è pericolosamente contagiosa”, ammonisce un vescovo, temendo che cominci a essere considerato normale uccidere i malati privi di speranza dopo che lo ha fatto una ragazza così sensibile.

In Francia si apre il dibattito, Christine è una fredda assassina spinta dal desiderio di onnipotenza oppure, come afferma la stessa pubblica accusa, una persona a suo modo generosa che ha voluto porre fine alle sofferenze dei pazienti? Comunque sia, il suo gesto rimane un grave crimine in Francia, dove, diversamente da Paesi come la Svizzera e l’Olanda, l’eutanasia è proibita.

D’altre parte, proprio le maggiori autorità si dimostrano comprensive nei confronti dell’imputata. “Guardiamoci dall’esprimere giudizi morali affrettati e, soprattutto, non lasciamo sola l’infermiera Christine Malevre”, dichiara Bernard Kouchner, ex ministro della Sanità, e aggiunge: “Non abbandoniamola nella disperazione come lo erano i malati che ha aiutato a morire”.

I giornali, invece di chiamarla “angelo della morte”, come era successo in passato con casi analoghi, le attribuiscono il soprannome di “madonna dell’eutanasia”, a causa della somiglianza dell’ex infermiera con una Madonna del pittore Giorgione.

In attesa del processo, nel 1999, Christine pubblica un libro intitolato “Le mie confessioni”. In questo libro scrive: “Ho aiutato a morire degli esseri umani che me lo chiedevano, per loro sono stata l’immagine della morte che gli andava pietosamente incontro”.

“Tutte sciocchezze: l’accompagnamento alla fine della vita dei malati terminali è solo una scusa”. A esprimersi così è Isabelle Ledere, ex infermiera di un ospedale parigino. “Lavoravo nel reparto di terapia intensiva, dove un signore settantenne vegetava da due mesi e mezzo in rianimazione, con un’insufficienza respiratoria grave e sotto tracheotomia. Un pomeriggio, il capo del reparto riunì l’equipe medica per annunciare l’intenzione di ‘staccarlo’. Prese una siringa e un flacone di Narcozep, un antidepressivo, poi si diresse verso la stanza del paziente. Staccò la spina alla macchina che lo aiutava a respirare e gli fece l’iniezione. Quando arrivò la moglie, la fece dirottare in un ufficio per impedirle di vedere quello che stavano facendo al marito. Entrai nella stanza un’ora dopo l’operazione”, continua l’ex infermiera, “quell’uomo era diventato violaceo, stava soffocando in solitudine nel suo letto. Un’agonia lenta e dolorosa. Due ore dopo era morto, senza che la moglie avesse potuto vederlo per l’ultima volta. La sofferenza dei malati era l’ultima preoccupazione del medico. In 76 giorni non si era mai preoccupato della sua possibile sofferenza, lo aveva tenuto in vita solo per ottenere i rimborsi dalla Sanità. Perché, allora, a un certo punto lo ha fatto fuori? Lo scoprii qualche giorno dopo, quando un paziente ‘importante’, di una famiglia legata all’ambiente medico, era atteso per un’operazione al torace. Se non si fosse tolto di mezzo un paziente, non ci sarebbe stato posto per lui”.
Una testimonianza che getta benzina sul fuoco innescato dal caso Malevre.

Mentre partono le querele di diffamazione contro Isabelle e le controquerele, ci si domanda se davvero le intenzioni di Christine Malevre fossero così disinteressate o se, anche lei come il medico di Isabelle Ledere, avesse agito per qualche tornaconto personale rimasto ignoto.

Secondo l’esperienza di Roland Coutanceu, criminologo di formazione psichiatrica, il punto non è questo. Esistono tre profili di “infermiere assassine”: la serial killer, che trae piacere dal causare la morte; l’attivista fanatica a favore dell’eutanasia e, infine, il soggetto nevrotico, ipersensibile alle altrui sofferenze e molto narcisista.

Per lo psichiatra, Christine Malevre appartiene a quest’ultima categoria, quella che uccide i malati per trovare gratificazione nel sentirsi, in modo distorto, i loro salvatori. Queste persone cercano di combattere così la propria depressione naturale, alimentata dalle terribili esperienze vissute in ospedale. Per evitare casi come questi, conclude Coutanceau, è importante che i pazienti terminali non siano lasciati ai singoli infermieri, ma seguiti da una squadra formata da medici, infermieri e parenti.

Nel gennaio del 2003, Christine Malevre viene processata dal tribunale di Versailles, la vecchia cittadella dei re di Francia alla periferia di Parigi. Durante le fasi finali dell’inchiesta il numero delle vittime viene fissato a sette, sulle altre, ormai, non si possono più trovare prove. Riconosciuta sicuramente colpevole dell’uccisione di almeno sei malati di cancro, la donna viene condannata a 10 anni di reclusione.

Al processo d’appello, tenuto a Parigi nell’ottobre dello stesso anno, la pena viene aumentata a 12 anni. Comunque Christine Malevre viene rilasciata dopo soli quattro anni di prigione, nel 2007. Il giudice aveva formulato la sentenza in modo che potesse scontare meno anni possibile. Per la maggior parte di coloro che l’avevano accusata e giudicata, Christine era, in realtà, fondamentalmente innocente. Ma dovevano comunque far rispettare la legge.
“L’intera faccenda è avvolta da una grande ipocrisia”, dice il suo avvocato Charles Libmann, “tutti sanno che il personale medico e paramedico effettua l’eutanasia benché sia ancora proibito dalla legge”.

In un sondaggio realizzato in America con la garanzia dell’anonimato agli intervistati, il 17% degli infermieri ha ammesso di aver praticato l’eutanasia aumentando in maniera massiccia, come aveva fatto Christine Malevre, le dosi dei medicinali prescritti ai pazienti terminali.



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Di Sauro Pennacchioli

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