CESARE PAVESE PER I RAGAZZI NATI DURANTE LA GUERRA

Nel 1947 Cesare Pavese scrisse ne La casa in collina: “Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante… Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione“.

I “morti repubblichini” sono i morti della Repubblica Sociale Italiana, cioè i fascisti della Repubblica di Salò guidata da Mussolini dopo l’8 settembre 1943 per volere dei tedeschi. Nel romanzo il protagonista, l’insegnante Corrado, prova un moto di pietà per i morti fascisti. Anche quei morti sono uomini.


I morti non sono tutti uguali

Se ancora oggi le polemiche non si sono placate, figuratevi l’atmosfera nel dopoguerra. Le parole di Cesare Pavese, anche se erano i pensieri di un suo personaggio, suscitarono un vespaio.

Il giudizio negativo è ancora presente adesso. Insomma la sua colpa sembra essere quella di essere sopravvissuto al fascismo, di non essere morto da martire come gli intellettuali resistenti Giaime Pintor (1943) e Leone Ginsburg (1944).

Adorare Pavese 

Io adoravo Cesare Pavese. Quando ho cominciato a leggerlo lui era già morto. Si era suicidato nel 1950. Io sono del 1945 e ho cominciato a leggerlo che avevo 14/15 anni, all’inizio negli anni sessanta. Il primo libro suo che ho letto è stato Paesi tuoi.

Mi ha folgorato: ero stata rimproverata dal mio professore di italiano perché avevo scritto che lavorare in campagna per i contadini era dura. Stavo facendo le medie. Il professore inorridì e mi disse che una signorina ben nata non doveva usare simili espressioni, ma doveva piuttosto descrivere gli uccellini, le farfalle eccetera. Forse il professore pensava che dovessimo essere come le finte pastorelle di Arcadia. Ci rimasi male, evidentemente non ero ben nata e, per me, il Seicento era finito da un pezzo.

Così Paesi tuoi, con quel linguaggio asciutto ed essenziale, mi colpì. Non ero solo io che avevo colto la tremenda fatica contadina. Erano diventati di moda gli scrittori americani proprio per merito di Pavese e dell’editore Einaudi che li avevano tradotti. Era entrato nelle orecchie un modo diverso di scrivere: semplice e diretto.

Quello che mi faceva andare in sollucchero era l’impasto linguistico. Il romanzo è tutto in prima persona. È un flusso ininterrotto di pensieri come se il lettore si trovasse all’interno della testa del protagonista e vedesse scorrere la realtà di fronte ai propri occhi. Io sono nata a Torino, ma ero barotta (contadina) nell’animo. I miei erano barotti della provincia di Alessandria e in casa parlavamo in dialetto. Quelle frasi, quei modi di dire scolpivano la realtà, la rendevano più fruibile, più immediata: le piante del viale erano spesse… andavamo come i buoi senza sapere dove… questi goffi di campagna… batte le strade come uno scappato di casa… (da Paesi tuoi).

Barotto significa bastone, baruté significa bastonare, i barotti erano i contadini abituati a usare il bastone, anche quelli che poi  erano andati in fabbrica a fare gli operai.

Cesare Pavese non era un barotto, apparteneva alla borghesia (il padre era il cancelliere del palazzo di Giustizia di Torino), ma era nato in Langa nel 1908 a Santo Stefano Belbo dove il padre aveva una casa. Apparteneva alla generazione dei miei genitori. Mio padre era del 1914 e mia madre del 1921.
Era la generazione che era cresciuta con il fascismo.

Benito Mussolini fondò il partito fascista nel 1919 e prese il potere nel 1922. Nel 1922 Pavese aveva 13 anni, mio padre 8 e mia madre 1 anno.

Il fascismo e la propaganda

Le Langhe
Le Langhe

Sono nata a febbraio del 1945. Ricordo ancora nitidamente le case bombardate della mia infanzia e i racconti dei miei familiari. Naturalmente ero molto curiosa di sapere che cosa fosse successo. La gente era sconvolta, ma sollevata che la guerra fosse finita. Ma chi erano i fascisti? Anzi, come erano stati?

Mio padre era un uomo tranquillo, non incline alla esaltazione. Era un contadino, figlio di un piccolo proprietario terriero del Monferrato che era venuto a Torino perché, con quel poco di terra che aveva, lui e i suoi numerosi fratelli non potevano sopravvivere. Era riuscito a entrare alla Fiat.
Mi diceva: “Non credere a quello che adesso raccontano per farsi belli. I fascisti erano tantissimi. Mussolini riempiva le piazze”.

Ho una foto che conservo ancora religiosamente. Non so perché avessi quella foto. Era la foto di un mio zio, un bell’uomo alto e atletico in camicia nera, alla guida di una moto con il sidecar. Era il marito della sorella di mia madre, forse all’epoca della foto solo fidanzato. Era in compagnia dei camerati fascisti della prima ora, con cui andava a dare l’olio di ricino agli avversari. Dopo la guerra era diventato un “rosso” (comunista) sfegatato. Quando andavamo a trovare mia zia minacciava mio padre: “Se prendiamo il potere noi, occupiamo la Fiat. Metto un negozio di frutta e verdura davanti al tuo e ti faccio fallire”.

Mio padre, che nel frattempo era diventato un negoziante, scoppiava a ridere. Mio padre si divertiva molto al fluire imprevisto della vita…

Io, poi, in separata sede, quando eravamo a casa (non avevo il coraggio di interrogare direttamente mio zio) chiedevo a mio padre: “Ma papà, non era lui quello della foto con la camicia nera, non era un fascista? Come mai adesso è diventato comunista?”.

Mio padre: “Ce ne sono tanti che erano fascisti e sono diventati antifascisti, anche quello lì, quel tuo professore, come si chiama, Norberto Bobbio. Anche quell’altro, Aldo Moro… Figurati che aveva partecipato ai littoriali dello sport, della cultura, dell’arte e del lavoro di concerto con La scuola di mistica fascista”.

Sapevo che Santa Caterina era una mistica, ma non sapevo che esistesse la mistica fascista.

Pensavo che mio padre esagerasse e andavo a fare ricerche alla biblioteca civica.

 

La ferita della guerra civile

Dopo la guerra la ferita era ancora viva. Gli odi erano sanguinosi. Non c’era stata nessuna riconciliazione, nessuna metabolizzazione, nessuna elaborazione. 

I rossi non accettavano le parole di Cesare Pavese, quelle scritte nel 1947 in La casa in collina

Se questo è un uomo

Nel 1958 era stato pubblicato da Einaudi, finalmente, Se questo è un uomo di Primo Levi, che era stato in precedenza rifiutato da Natalia Ginsburg e proprio da Cesare Pavese, con la giustificazione che la casa editrice Einaudi aveva già pubblicato troppi libri sullo sterminio degli ebrei. Io pensavo: “Certo se il fascismo ha portato a questo come si può comprendere e giustificare? Come si può perdonare? I rossi forse hanno ragione”.

Però indagavo anche sulle malefatte dei rossi, per poi pentirmi di aver parlato di quegli episodi tremendi che sono molto contenta di non aver visto con i miei occhi.

Mia madre mi disse: ”Ho visto due ragazze appese ai platani lungo il Po a testa in giù con il vestito rovesciato lungo le gambe e si vedeva tutto. Io e tua zia Maria passavamo terrorizzate a testa bassa. Allora è arrivata una vecchia che urlava agli assassini di vergognarsi, che non si possono fare impunemente certe cose. Si è alzata in punta di piedi ed ha appuntato le gonne delle ragazze con delle spille. Era la fine della guerra, ma non lo sapevamo che sarebbe terminata fra poco. Bombardavano sopra Torino tutti i giorni”.

Mio padre mi raccontava che una volta una banda di partigiani, che aveva la sede sulla collina del Pino, (quella de La casa in collina) vennero a sequestrare il commendatore che era il padrone di casa dove mio nonno era a mezzadria. Anche la mia famiglia viveva lì perché la nostra casa era stata bombardata. Lo legarono a una sedia e cominciarono a minacciarlo e a torturarlo. Mio padre vide che si metteva male e scappò di nascosto. Andò a chiamare il comandante della sede dei partigiani che arrivò di corsa a richiamare i suoi.

La ciucca

Sicuramente era molto difficile non farsi coinvolgere dal fascismo quando i fascisti comandavano. Inoltre Mussolini prestava molta attenzione alla propaganda del proprio regime. Il Ministero della Cultura popolare e gli enti che lo avevano preceduto fin dal 1922 controllavano e organizzavano la stampa e la propaganda in modo che non filtrasse alcuna critica.

Sembra impossibile che, sapendo della situazione degli armamenti italiani, Mussolini si esaltasse fino al punto di scendere in guerra trionfante contro mezza Europa. Io ho pensato che forse non conosceva a fondo la situazione, forse non gli avevano riferito delle scarpe di cartone…
Oppure credeva anche lui alla sua propaganda e alla sua buona stella.

L’autoesaltazione dei fascisti era ancora presente in alcune persone nel dopo guerra. Esisteva un tipo d’uomo prepotente, cresciuto sotto il fascismo, convinto che le donne fossero inferiori. Non so se fosse così perché era fascista o se fosse fascista perché era così, oppure se questo tipo d’uomo fosse precedente al fascismo (come è probabile). A scuola ci facevano studiare Gabriele D’Annunzio che a modo suo era stato fascista e sapevamo tutti come trattava le donne. C’erano anche delle donne su cui aveva fatto presa la propaganda fascista e la predicazione della Chiesa che aveva concluso con Mussolini i Patti lateranensi l’11 febbraio 1929. Vedevano in Mussolini se non il difensore dei valori cristiani, il difensore della situazione di fatto, della famiglia contro il divorzio.

Le disgrazie non arrivano mai sole

Il padre di Cesare Pavese morì di un tumore al cervello nel 1914, quando Cesare aveva 5 anni. La famiglia di Pavese era stata funestata da morti e malattie. Nel 1926 un suo compagno di classe che si chiamava Elico Baraldi si suicidò nella casa paterna a Bardonecchia, sparandosi alla tempia.
Pavese ne ricevette un’impressione indelebile.

Io pensavo che Pavese fosse insicuro, incerto, sicuramente molto triste. Mi piaceva proprio per quello. Ero diffidente nei confronti dei maschi che si ritenevano superiori alle donne. Pensavo che Pavese fosse uno sfigato che pretendeva troppo dalla vita e dalle donne.



Ascoltatevi l’intervista della nipote, qui sopra. Secondo lei Cesare non era affatto sfortunato con le donne. C’erano delle donne che lo inseguivano, che lo volevano, ma lui si innamorava solo di donne che non lo amavano e che si approfittavano di lui.
Insomma pensavo che Cesare fosse un uomo poco pratico, uno che non avesse mai capito come va il mondo.

Non avevo ancora letto il suo diario cioè Il mestiere di vivere scritto dal 1935, dall’inizio del confino a Brancaleone Calabro dove era stato messo dal fascismo, fino a pochi giorni prima del suicidio il 27 agosto 1950.
Il diario fu pubblicato postumo per la prima volta nel 1952 da Einaudi a cura di Massimo Mila, Italo
Calvino e Natalia Ginzburg. I tre curatori non vollero apportare nessuna modifica. Anche se sappiamo che Tina Pizzardo, la donna che aveva coinvolto Pavese in alcune attività antifasciste forse a sua insaputa, a causa delle quali finì al confino, li pregò di omettere le parti poco lusinghiere per lei.

Non siamo più nell’Ottocento, le ragazze non devono sposare obbligatoriamente colui con cui hanno intrecciato una relazione pena la perdita di rispettabilità.
La professoressa di matematica Tina Pizzardo che si giostrava fra il politico e futuro europeista Altiero Spinelli, l’intellettuale Cesare Pavese e l’ingegnere polacco comunista Henek Rieser, alla fine scelse l’ingegnere che le aveva dichiarato di non amarla. Ma la Pizzardo, come confessa nella sua biografia (Senza pensarci due volte, Il Mulino, 1996) cercava la libertà cui non era disposta a rinunciare, e forse l’ingegnere polacco che non l’amava non l’avrebbe soffocata.

Pavese si dà una spiegazione razionale del motivo per cui le donne si comportano così:
“È naturale che la donna, costretta dalle circostanze a subire un intervento altrui sul proprio corpo, che l’asserve (senza contare la soggezione sociale), abbia sviluppata tutta una tecnica di fuga in se stessa, di elusione dell’uomo, di vanificamento della vittoria di lui. A parte l’altra arma dell’inganno e del gioco nei rapporti sociali. L’uomo è schiavo, al massimo, del vizio, ma la donna dopo il coito – è schiava delle probabili conseguenze; donde la sua tremenda praticità in queste cose”.

Il suicidio

Mi pare che all’epoca della morte di Pavese la considerazione del suicidio fosse un po’ diversa da adesso. Ora pensiamo subito alla depressione, alla malattia mentale. Sicuramente era diversa per me. Ero sotto l’impressione della morte per suicidio della ebrea francese Simone Weil.

Sapevo inoltre che parecchi ebrei si erano suicidati nei campi di sterminio (attaccandosi ai fili elettrificati) anche se non così tanti come si sarebbe potuto supporre.

Padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz offrì la sua vita alla morte per fame in cambio della salvezza di un compagno di sventura.

Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, una mistica e una scrittrice francese, che si lasciò morire di fame e di stenti per vivere una vita quanto più simile alle operaie francesi. Era un’intellettuale, una professoressa, ma regalava le sue razioni e il suo stipendio in modo da nutrirsi come si nutriva il proletariato francese.
Pur essendo ebrea conosceva a fondo il cattolicesimo.

Mi sembrava un po’ un’esaltata ma, nello stesso tempo, ero affascinata dalla sua coerenza e dalla sua intelligenza.

Io non mi sentivo e non mi sento oggi di condannare il suicidio di colui la cui vita diventa intollerabile. Il suicidio può essere un atto d’accusa per il mondo, se il mondo ha ridotto il suicida a compiere quell’atto. All’epoca la posizione della chiesa cattolica era molto rigida. Fino al nuovo Codice di diritto canonico emanato nel 1983 c’era il divieto di celebrare le esequie e di dare sepoltura cristiana in camposanto ai suicidi.

Infatti a Cesare Pavese non fu data una sepoltura cristiana, ma fu sepolto con una cerimonia civile.

La posizione della Chiesa era questa: il quinto comandamento proibisce di uccidere e anche il suicidio è un omicidio, si uccide se stessi e non ci si dà il tempo di pentirsi. Ora la posizione della Chiesa è meno rigida. Si dà atto che le vie del Signore sono infinite, che il suicida potrebbe avere la mente ottenebrata dalla disperazione e non rendersi pienamente conto di quello che sta facendo.

La tomba di Cesare Pavese si trovava nel cimitero monumentale di Torino. Nel 2002 con il consenso delle nipoti venne traslato nel cimitero di Santo Stefano Belbo.


Il giudizio di Pasolini su Pavese


In questa intervista del 1972, Gianfranco Contini chiede a Pier Paolo Pasolini di dare un giudizio su Cesare Pavese. Pasolini sostiene che Pavese è uno scrittore medio, anzi mediocre.
L’intervista non è mai andata in onda. Pasolini era nato 14 anni dopo Pavese (1922). Anche lui aveva fatto in tempo a vedere la civiltà contadina a Casarsa, il paese friulano di sua madre presso cui era sfollato con lei in tempo di guerra. Aveva previsto che quella civiltà millenaria in pochi anni sarebbe scomparsa sotto l’urto della società dei consumi e così è successo.

Sia Pavese che Pasolini erano innamorati della cultura popolare, contadina. Erano intellettuali, uomini di cultura legati alla classicità. Pasolini è molto critico nei confronti di Pavese. Lo considerava uno che, nel 1972, era già stato accuratamente valutato dalla critica e che piace ai giovani perché dà lustro a chi lo legge.
Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini non si erano creati una famiglia propria. Pasolini viveva ancora con la madre e Pavese con la sorella.

L’ultima opera scritta da Pavese è La luna e i falò, che fluisce tutta in prima persona senza interruzioni e senza sbalzi. Il romanzo mescola il presente con i ricordi brucianti del tempo di guerra, il paese langarolo con i ricordi dei paesaggi americani delle opere che aveva tradotto.



5 pensiero su “CESARE PAVESE PER I RAGAZZI NATI DURANTE LA GUERRA”
  1. Brava Angela. Ricostruzione lucida senza fronzoli come si addice ai Piemonteai del sud che sentono già l’aria marina!!!!

  2. Versione definitiva

    Cara Angela, a proposito del tuo articolo su Cersare Pavese pubblicato il 31 dicembre u.s. sul Giornale Pop, ti dirò che anch’io da giovane negli anni ‘70 come tutti i miei coetanei dovetti leggere qualcosa di Pavese, ma avevo già letto ed apprezzato Giovannino Guareschi, e l’avevo pure incontrato di persona nel 1967.
    Quindi non mi fece un’impressione molto positiva. Entrambi i due scrittori descrivevano il mondo contadino, ma Pavese lo faceva in modo distaccato, come se le genti di campagna fossero degli alieni, che il “Terrestre” cioè il cittadino poteva studiare, comprendere ma non immedesimarsi a causa di una sua diversa natura planetaria.
    Tutto il contrario di Guareschi che si sente uno di quei rustici, sia esso prete, sindaco di un paese, maestra delle elementari, negoziante, barbiere, meccanico e fabbro, semplice mezzadro e persino vitellone sfaccendato. Sia pure un Attivista comunista o un incallito tradizionalista, sa farci amare tutti costoro, trovando sempre il lato buono e di sentimento in tutti essi.

    Non conoscevo l’intervista di Pierpaolo Pasolini su Cesare Pavese, ma gli dò ragione.
    Malgrado i suoi vizietti, che alla fine lo portarono alla tragica morte, Pasolini era l’intellettuale italiano migliore; certamente il più sincero.
    Non per niente Pasolini e Guareschi alla fine fecero insieme un film scenaggiato da entrambi: La rabbia del 1963, che però per mene politiche non venne distribuito se non parzialmente a discapito di Guareschi.

    Franco Ressa

  3. Caro Franco,
    ti ringrazio di avermi dedicato del tempo e scritto quello che pensi che è importante perché è un altro punto di vista. Sicuramente come giornalista Pasolini era geniale ma forse erano anche maturati i tempi. L’intervista è degli anni 70 e forse nel 1950 era troppo presto per capire che la civiltà contadina sarebbe scomparsa dopo poco.
    Però che giganti!!!

  4. Al pari di Pasolini, Cesare Pavese era “troppo in avanti per i suoi tempi”; lo dimostra il fatto che solo oggi ci si rende conto del suo “valore artistico e letterario”.
    Nell’Italia di oggi, avremmo bisogno di uomini come lui e Perpaolo!

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