La natura umiliata e offesa si ribella, liberando il suo potenziale distruttivo. Il mare e la terra si rivoltano contro l’uomo. La montagna lo investe. Soffiano venti dalla forza devastante. Dall’universo piovono meteoriti vaste quanto un continente.
Le grandi aree urbane, degenerate in Gomorre ultra-industrializzate, sono il bersaglio prediletto da una Grande Madre vendicatrice. Il denaro non basta a garantirsi l’immunità. La morte non sa leggere. E la (s)fortuna è cieca: i ricchi, i cinici e i potenti del pianeta, nel cinema delle catastrofi sono, anzi, nel mirino.
Muore da vigliacco l’avido costruttore de L’inferno di cristallo. Muore, in Valanga, l’affarista senza scrupoli che ha costruito l’impianto sciistico alla faccia dell’ecosistema. Annega, ucciso dal cataclisma, l’ingiusto governatore americano in Uragano.

La natura che imperversa nei film catastrofici degli anni settanta reindirizza a equilibri etici. Una natura giustiziera che fa sì che i conti tornino sempre, e pendano sempre dalla parte del Bene.
A seguito di ripetute fughe, morti, crolli e distruzioni, nel cinema catastrofico le gerarchie morali vengono infine ristabilite: gli eroi e le eroine supereranno la prova e conseguiranno la salvezza. Ai cattivoni, ammesso che riescano a farla franca, non resta che leccarsi le ferite. Il lieto fine, per quanto implausibile, è compreso nel prezzo del biglietto.
Le sequenze conclusive di molti catastrofici sono panoramiche rassicuranti fra stremati sopravvissuti alla tragedia, corali affollatissimi di barellieri e vigili del fuoco, in uno scenario post-apocalittico di macerie e rovine. Campi e controcampi su volti estenuati con lacrima in punta di ciglio. Uno dei sensi ultimi dei film sulle catastrofi risiede infatti nel solidarismo, nell’afflato umanitario che lega tra loro le brave persone. Clichè del cittadino-tipo che crede ancora, e malgrado tutto, nel sogno americano. Il messaggio è rassicurante e strizza l’occhio allo spettatore. Si tira il fiato. L’esorcismo di gruppo è compiuto.

L’inferno di cristallo (John Guilliermin, 1974) inaugura il filone in forma immaginifica. Da capostipite di genere, il film detta i luoghi comuni che, nel bene e nel male, ne caratterizzeranno l’evoluzione: la spettacolarità degli eventi disastrosi, il bozzettismo psicologico dei characters, la pretestuosità di alcune situazioni, il cast affollato di attori di grande richiamo, il sensazionalismo dei flani pubblicitari che annunciano: “L’avventura più spettacolare del secolo”.
L’esibizione delle fiamme che avviluppano nella notte il colosso di ferro e cemento rappresenta inoltre una vera fascinazione per lo sguardo. La regia, nel complesso, si rivela robusta. La recitazione anche. L’inferno di cristallo è stato uno dei maggiori successi degli anni settanta. Ha vinto pure tre Oscar (montaggio, fotografia e canzone), diventando antonomasia di catastrofismo cinematografico.

 

 

Nello stesso anno Terremoto (Mark Robson) sceglie ancora una metropoli (Los Angeles) come teatro del cataclisma. Le vicende personali di un nutrito gruppo di protagonisti si intrecciano e si misurano, nella fattispecie, con la tragedia tellurica. Sul plot poco altro da aggiungere: sullo sfondo del sisma annunciato, gesti eroici e viltà piccole e grandi si succedono con gran dispendio emotivo (quantomeno nelle intenzioni degli autori).
Il nuovo sensurround (l’effetto “vibrazione” che consente allo spettatore di entrare sensorialmente al centro della vicenda) garantisce allo spettatore adrenalina senza precedenti: “Vi sembrerà di trovarvi in mezzo ad un vero terremoto, con tutti i suoi effetti”, minacciano i flani italiani. Di rimando la direzione del cinema spesso e volentieri “non si assume alcuna responsabilità per eventuali reazioni fisiche e emotive che gli spettatori dovessero avere assistendo a questo spettacolo”.
Ci può stare, per un intreccio allestito in funzione dello spettacolo della rovina, che l’innovativo sistema sonoro restituisce “dal vivo”. L’Oscar per gli effetti speciali è insomma meritato.

 

 

Ancora fuoco a volontà, stavolta sulla Grande Mela, nel programmatico 1975: fiamme su New York. Dirige Jerry Jameson, cavalcando l’onda del clamoroso successo de L’inferno di cristallo, ma i ripetuti “già visto” e un’effettistica non all’altezza di The tovering inferno, contribuiscono all’immediata caduta nel dimenticatoio della pellicola.
Anche se i flani si producono negli allarmismi che hanno segnato il decennio: “Il nuovo effetto stereofonico Supervideo round a sei piste vi farà seguire con estremo verismo le sequenze più drammatiche di questo film. Vivrete ciò che vedrete”, strombazzano stavolta con poche ragioni. Il film resta un onesto (e costoso) B-movie a stelle e strisce.

 

Al genere fiamme & suspense appartiene, ancora, Il colosso di fuoco, diretto nel 1976 da Earl Bellamy, che segue (con varianti) il canovaccio inaugurato con esiti clamorosi da L’inferno di cristallo. Prodotta dallo stesso Irwin Allen di The tovering inferno, la pellicola mantiene ciò che promette il titolo: l’incendio di proporzioni colossali è l’assoluto protagonista di due terzi del film. Timori, tremori, e ardimenti che ne discendono sono pedissequi al copione.

 

Nel 1977 L’ultima onda, di Peter Weir, opera uno slittamento del filone verso coordinate esoterico-apocalittiche. L’ultima onda è un film buio e piovoso. Ammaliante. Le suggestioni sono alte, così come alti sono i possibili livelli di lettura. Nei meandri segreti dove il tempo si è fermato all’era delle tribù aborigene, la metropoli australiana (grattacieli e strade ampie) nasconde un’entità metafisica e tumorale.
Il mistero in cui Richard Chamberlain viene inconsapevolmente precipitato è un viaggio iniziatico e sapienziale all’interno degli arcani della Natura che nessuna civiltà industrializzata potrà mai fronteggiare e penetrare del tutto. Un film claustrofobico e inquietante. L’apocalisse verrà dal Continente Nuovissimo.

 

Nel 1978 Valanga di Corey Allen riconduce il genere alle sue coordinate consuete: superando ogni sorta di intralci burocratici e abbattendo un gran numero di abeti, il “duro” David Shelby ha costruito, in una zona di montagna, un grande albergo con annessi impianti per sciatori e pattinatori.
Un suo amico ecologo è convinto che, a causa del dissennato disboscamento, la zona sia esposta al pericolo delle valanghe. Il giorno dopo l’inaugurazione lo schianto di un aereo contro una montagna provoca il disastro annunciato. Un’immensa valanga uccide sciatori e gitanti e si abbatte contro l’albergo, demolendone un’intera ala.
Scontata e ripetitiva oltremisura, la pellicola risente dei limiti autoriali di un genere che, in coda di decennio, comincia già a mostrare la corda. I dialoghi sono abusati, le situazioni fiacche e banali. Anche gli effetti speciali non sono granché. La presenza di Roger Corman alla produzione non basta a risparmiare Valanga dall’onta del flop.

 

La stessa (ben misera) sorte commerciale tocca a Meteor di Ronald Neame. Stesso anno, identico insuccesso, a dispetto del cast stellare. Il film si apre con un proclama stentoreo (stile sci-fi anni cinquanta), prosegue tra fiumane di noia, finendo in gloria, con un lieto fine tanto edificante quanto zuccheroso.
Ronald Neame mescola insieme catastrofico e fantascientifico in un film a tesi buonista che non riesce a mordere e a convincere più di tanto. Il messaggio in soldoni sarebbe questo: le divisioni politiche vanno abbandonate per il bene del Pianeta. Nobile ma alquanto improbabile in quegli anni di reiterata guerra fredda. Nemmeno Sean Connery ci crede. E si vede.

 

È il 1979 quando il catastrofico offre ulteriormente del suo peggio con Uragano, di John Troell. Un remake del lontano Uragano di John Ford (1937), costituisce il tentativo di Dino De Laurentiis di (ri)dare fiato a un genere ormai logoro. Il film assembla con malagrazia un buon numero di stereotipi: prendete l’esotismo melenso di Laguna blu, aggiungeteci un taglio ruffiano da tour operator, shakerate il tutto con venti minuti fracassoni di effettistica speciale, e avrete questo filmetto, manierato e soporifero che più soporifero non si può.
Si salva Henry Fonda nei panni (per lui insoliti) del papà senza cuore. Con la figlia che si ritrova, una Mia Farrow bella e impassibile, non è che abbia poi tutti i torti.

 

Città in fiamme, diretto da Alvin Rakoff, vede la luce lo stesso anno, riproponendo in extremis il rosso-fuoco come cromatismo dominante del film. Henry Fonda, Shelley Winters, Ava Gardner, Leslie Nielsen contribuiscono, con mestiere, a sostenere una storia piccola e fragile, per di più massicciamente inflazionata. Rakoff dirige in funzione quasi esclusiva dello spettacolo e degli effetti speciali, riuscendo nello scopo. Elegiaco. Con fiamme.

 

Nel 1980 la montagna ritorna a fare paura: Ormai non c’ è più scampo risulta però un nuovo esempio di kolossal sprecato. Dietro la macchina da presa c’è ancora James Goldstone. La denuncia ecologista se la prende, stavolta, con le trivellazioni petrolifere, causa del risveglio di un vulcano addormentato da secoli. Il pistolotto è il solito, quello che gira intorno a una umanità cinica e corrotta e a un ecosistema violentato. Lava e terremoti investiranno ogni cosa, compreso il lussuoso albergo per vip.
Paul Newman, specializzato nei ruoli di bello&buono, è l’ingegnere senza macchia e senza paura che si prodiga a salvare il salvabile. Che in questo film è davvero poco. Tolto il profluvio di fuoco assassino che, come visto, sa affascinare di suo.

 

© Mario Bonanno

Un pensiero su “CATASTROFI NEL CINEMA ANNI SETTANTA”
  1. Il vero capostipite non è “Inferno di cristallo”. Se non vogliamo scomodare “Airport” del 1969, il primo degli anni ’70 va considerato “L’avventura del Poseidon” del 1972. Fu questo film che stabilì le regole del “disaster movie” dei Seventies, secondo me.

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