Non basta la notizia di un delitto, ci vuole il giusto narratore per renderlo interessante. I giallisti moderni sono ben noti: Arthur Conan Doyle, G.K. Chesterton, Agatha Christie, Rex Stout… Ma il genere in un certo senso potrebbe essere stato inventato da un italiano del Cinquecento: Matteo Bandello (1485-1561), il quale invece del termine inglese thriller usava dire “orroroso”.

Matteo Bandello nasceva nella piccola nobiltà di Castelnuovo Scrivia, al confine tra le attuali provincie di Alessandria e Pavia. Allievo dei domenicani, da ragazzo ha la fortuna di vedere Leonardo da Vinci dipingere l’Utima cena nel convento milanese di santa Maria delle Grazie. Bandello è un prete e monaco cortigiano e mondano: non saranno poche le donne nobili da lui frequentate a Milano e Mantova. Presumibilmente qualcuna di queste fu sua amante. Terminerà la propria vita nel sud della Francia, come vescovo della città di Agen.

Uomo di grande cultura umanistica, scrive una raccolta di novelle e notizie di cronaca e storia: 214 in tutto, pubblicate tra il 1554 e il 1573. Anni dopo William Shakespeare si impadronisce di alcune di queste storie, che legge nella traduzione inglese, e le trasforma in rappresentazioni teatrali: “Molto rumore per nulla”, “La dodicesima notte” e “Giulietta e Romeo”. Contemporaneamente, anche in Spagna Lope de Vega sfrutta senza problemi i testi del domenicano, dato che a quei tempi non esiste ancora il diritto d’autore.

BIANCA MARIA SCAPARDONE: SESSO E DELITTO NEL RINASCIMENTO MILANESE
Matteo Bandello, ispiratore del teatro di Shakespeare e Lope de Vega



Nella quarta novella della prima parte della sua opera, Bandello riferisce con dovizia di particolari una vicenda della quale fu testimone diretto a Milano. La protagonista è Bianca Maria Scapardone.

Figlia di nobili monferrini, nasce intorno all’anno 1498 a Casale Monferrato (provincia di Alessandria). All’età di 15 anni viene sposata con Ermes Visconti, discendente dei duchi di Milano, signore di Somma Lombardo (provincia di Varese). Il Visconti era più anziano di una ventina d’anni e vedeva la giovane moglie molto più attenta ai ragazzi della sua età, perciò la teneva ritirata e sorvegliata. Alla fine Ermes finì nelle congiure della guerra tra Francia e Spagna, nel 1519 venne accusato a tradimento e decapitato.

Sentendosi libera, Bianca Maria si diede alla bella vita, e solo per interesse accettò di risposarsi con Renato di Challant, giovane e potente, essendo uno dei maggiori nobili del ducato di Savoia, padrone della parte orientale della Val d’Aosta. La loro sede fu uno dei bellissimi castelli della regione, Issogne, ancor oggi ben conservato e con la mobilia originale.

BIANCA MARIA SCAPARDONE: SESSO E DELITTO NEL RINASCIMENTO MILANESE
Conte Renato di Challant



Però la vita castellana tra le montagne annoiò ben presto la spumeggiante Bianca Maria Scapardone, e quando il marito si impegnò nell’esercito del re di Francia, fuggì a Pavia. Renato accettò il fatto compiuto e non cercò di recuperarla.

Tra i molti amanti di Bianca Maria c’erano due piemontesi, i fratelli Ardizzino e Carlo conti di Masino (provincia di Torino). Ma a Bianca non bastavano e si unì anche a Roberto Sanseverino conte di Caiazzo (provincia di Caserta), proprietario di un esercito mercenario, una specie di Prigozhin di quei tempi.

Ardizzino prese male la cosa e iniziò a screditare l’ex-amante. Lei allora usò le sue arti femminili e di consumata seduttrice per convincere Sanseverino a eliminare fisicamente Ardazzino e Carlo Masino. Sanseverino però non cade nella trappola e si allontana da lei.

Rabbiosa e insoddisfatta, Bianca Maria riprende i contatti, anche sessuali, con Ardizzino e avanza a lui la proposta di uccidere Roberto di Caiazzo. Malgrado le molte maldicenze sul capo mercenario, nemmeno stavolta la donna riesce nel proprio intento, anzi Ardizzino di Masino incontra a Milano il Caiazzo, gli riferisce le trame della loro amante e, da miltare che è, Sanseverino esclama: “Io le caverei la lingua per dietro la nuca!”.

Non bastandole un condottiero, Bianca Maria Scapardone porta nel proprio letto un soldataccio, il capitano siciliano Pietro Cardona (essendo in guerra da più di una ventina d’anni, Milano era piena di mercenari).

Cardona si lascia convincere, una serata nel settembre 1526 si apposta con venticinque sgherri armati di alabarde per attendere i due fratelli Masino, che percorrono a piedi un viottolo presso via Meravigli, e li assalta sotto un porticato che ancora esiste. Gli sfortunati nobili piemontesi si battono come furie, ma alla fine muoiono insieme a nove loro servi del seguito.

Dopo la battaglia di Pavia nel 1525, Milano e la Lombardia si trovano sotto il potere dell’imperatore d’Austria e re di Spagna, Carlo V. In quel momento governa la città Carlo III di Borbone, antenato indiretto dei successivi re Borboni di Francia, Napoli e Spagna (questi ultimi tuttora sul trono).

Malgrado sia connestabile, cioè comandante in capo dell’esercito francese, Carlo III è passato con il nemico Carlo V.
Roberto Sanseverino si precipita da lui perché sa di essere la prossima vittima, e denuncia gli assassini. Il Borbone fa subito arrestare Pietro Cardona, promettendogli l’impunità se denuncerà il mandante della strage.

Lasciamo la parola a Matteo Bandello: “Il duca di Borbone, intesa la confessione di don Pietro, mandò a pigliar la donna, la quale come sciocca fece portar seco un forsiero ove erano quindeci migliaia di scudi d’oro (49,5 chilogrammi di oro fino, a oggi 2 milioni 846 mila euro), sperando con sue arti d’uscir di prigione. Fu tenuto mano a don Pietro e fatto fuggir di carcere. Ma la disgraziata giovane, avendo di bocca sua confermata la confessione de l’amante, fu condannata che le fosse mozzo il capo. Ella, udita questa sentenza, e non sapendo che don Pietro era scappato per la più corta, non si poteva disporre a morire. A la fine essendo condutta nel rivellino del castello verso la piazza (un castelletto che sorgeva dove oggi c’è la fontana di piazza Castello), e veduto il ceppo, si cominciò piangendo a disperare e a domandar di grazia che, se volevano che morisse contenta, le lasciassero veder il suo don Pietro; ma ella cantava ai sordi. Così la misera fu decapitata (il 10 ottobre 1526). E questo fin ebbe ella de le sue sfrenate voglie. E chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero maggiore, e là dentro la vedrà dipinta”.

BIANCA MARIA SCAPARDONE: SESSO E DELITTO NEL RINASCIMENTO MILANESE
Castello sforzesco in una stampa d’epoca



Bernardino Luini (1481-1532), varesino, era il pittore alla moda nella Lombardia del primo Cinquecento. Tra i ritratti dei nobili probabilmente aveva eseguito anche quello di Bianca Maria Scapardone. Lavorando intorno al 1530 nella chiesa di san Maurizio al Monastero Maggiore affrescò, tra i numerosi personaggi religiosi, santa Caterina. Il martirio di costei richiama da vicino la decapitazione della Scapardone, e la fisionomia potrebbe essere la sua.

Bernardino Luini: il martirio di santa Caterina



Nello stesso gruppo di affreschi, santa Lucia viene riconosciuta come il ritratto di Bianca Maria Scapardone.

Bernardino Luini: santa Lucia (supposto ritratto di Bianca Maria Scapardone)



Il Monastero Maggiore, oggi museo di antichità archeologiche della città di Milano, si trova sul corso Magenta, a poche decine di metri di distanza dal luogo dell’omicidio dei due Masino, e non lontano dal luogo dell’esecuzione della contessa Bianca Maria Scapardone.

Chi ebbe la meglio dopo queste tragedie fu il conte Challant, trascurato secondo marito, che riuscì a ottenere i beni della infedele moglie, a scapito dei parenti monferrini di lei.

Altra vicenda collegata indirettamente con l’arte ebbe il connestabile Carlo di Borbone, che con ogni probabilità si impadronì del tesoro sequestrato alla condannata. Sei mesi dopo la condanna dell’assassina, fu a capo delle truppe imperiali dei lanzichenecchi tedeschi che attraversarono l’Italia per andare a prendere e saccheggiare Roma. Ma nell’assalto alla città fu colpito a morte da un colpo di archibugio sparato dallo scultore Benvenuto Cellini (1500-1571), che per questa impresa ricevette il plauso e la riconoscenza del Papa Clemente VII de’ Medici.

Qualche anno dopo, tra il 1534 e il 1541 Michelangelo Buonarroti (1475-1564) dipinge il Giudizio universale nella cappella Sistina in Vaticano. Volendo rappresentare il Borbone come nemico della religione, lo raffigurò nelle vesti di Caronte, il demone infernale che traghetta i morti.



Nel Rinascimento, i pittori e scultori non vivevano solo di arti visive, ma anche di letteratura, di politica e arte bellica.






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