E se George Lucas, nella creazione di Indiana Jones, si fosse ispirato a un italiano?
Se fosse stato il sempre prestante Harrison Ford, per una volta, a emulare un ancora più prestante padovano che, nel primo ventennio dell’Ottocento, con i suoi oltre due metri di altezza e la montagna di muscoli che lo ricopriva, faceva andare in visibilio le signore dell’epoca?
Si tratta solo di una bella suggestione, certamente, ma qualche indizio potrebbe indurre a pensarlo.

Giovanni Battista Belzoni, nato a Padova nel 1778, era uno dei 13 figli di un modesto barbiere operante a Borgo Portello.

Forse anche per liberarsi di una delle tante bocche da sfamare, sicuramente la più vorace vista la taglia XXXL assunta dal ragazzo fin dall’adolescenza, il babbo lo spedì sedicenne a Roma per compiervi studi di ingegneria idraulica (materia sempre di attualità nella Serenissima), ma con la segreta speranza che si facesse prete.

L’Urbe in effetti una vocazione al giovane Giovanni Battista la instillò, ma per gli scavi archeologici visto che le antichità classiche lo impressionarono al punto di diventare la sua ossessione.

La calata dei francesi in Italia e il rischio di essere costretto a entrare nell’esercito napoleonico convinsero il nostro nel 1803 a riparare in Inghilterra, paese in cui per guadagnarsi da vivere iniziò a esibirsi in un circo come “Sansone della Patagonia”, che reggeva da solo una piramide fatta di dieci uomini.

A Londra Belzoni conobbe e sposò Sarah Banne, di circa mezzo metro più piccola di lui, che sarebbe stata la sua compagna di vita ed avventure insieme a un altro bizzarro personaggio: il giovane maggiordomo irlandese James Curtis, poliglotta e interprete della coppia.

Stufo di fare il fenomeno da baraccone e desideroso di mettere a frutto i suoi studi, con il suo mini seguito Belzoni nel 1815 iniziò a girovagare per i Paesi del Mediterraneo, trattenendosi in particolare a Malta dove, in un intreccio da film d’avventura popolato di spie francesi e agenti del controspionaggio britannico, venne a sapere che il pascià d’Egitto cercava esperti in idraulica.

Detto fatto, il nostro si trasferì nel Paese dei faraoni trasformandosi in una sorta di segugio delle meraviglie antiche, dei tesori che tutti favoleggiavano che ci fossero, ma nessuno sapeva di preciso dove.

La vista delle piramidi, “di una bellezza tale che la penna tenterebbe manco di poter descrivere”, oltre alla conoscenza dello svizzero Burckhardt (scopritore dell’antica città di Petra), del piemontese Drovetti (noto egittologo la cui collezione privata avrebbe costituito la base iniziale del Museo Egizio di Torino) e dell’acerrimo nemico di quest’ultimo, il console inglese Henry Salt, lo convinsero a lanciarsi in ardite esplorazioni mai tentate prima.

In tre distinte spedizioni che l’occuparono per quasi quattro anni Belzoni, fra attentati alla sua vita, fughe rocambolesche, temperature torride, aspidi velenosi, risalite e discese del Nilo in chiatta e problemi di ogni tipo con i locali, riuscì tra l’altro a penetrare per primo nel tempio di Abu Simbel, dissotterrò numerose tombe tra cui quella del faraone Seti I, ancora detta “Tomba Belzoni” e famosa per le sue splendide decorazioni policrome che ne fanno la “Cappella Sistina egizia”, individuò l’ingresso della piramide di Chefren, incidendo nella relativa camera sepolcrale la scritta “scoperta da G. Belzoni, 2 marzo 1818” ben visibile ancora oggi.

Rientrato a Londra nel 1820, vi fu accolto come un principe, trovando anche il tempo di scrivere un libro di memorie di cui leggeva i passi salienti nei salotti più esclusivi.
Questi ultimi però iniziarono presto ad andargli stretti, tanto che il desiderio di nuove avventure l’indusse ad accettare una ben remunerata missione in Africa, alla scoperta delle sorgenti del fiume Niger.

Peccato che pochi giorni dopo essere sbarcato al porto fluviale di Gwato, nell’odierna Nigeria, il 3 dicembre del 1823 il nostro “Indiana Jones” morì di dissenteria, venendo sepolto alla meno peggio in una tomba ai piedi di un albero di cui, a distanza di pochi anni, si sarebbe persa la memoria.

Doveroso per noi mantenere vivo il ricordo di questo singolare avventuriero “di casa nostra”, purtroppo poco conosciuto ai più.

 

 

(In apertura un disegno di “Giovanni Battista Belzoni in vesti arabe”, tratto dal suo libro di memorie del 1820, © The Trustees of the British Museum, released as CC BY-NC-SA 4.0).

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *