Beatrice

Storia triste, dal finale tragico, quella che vide come protagonista Beatrice, nata il 6 febbraio del 1577 e figlia del barone Francesco Cenci, capo di un’antica Casata romana con numerosi possedimenti terrieri, inclusa la rocca di Petrella Salto.

Uomo iracondo, depravato e tirchio con tutti, fuorché con se stesso, Francesco dalla prima moglie ebbe due figlie femmine e cinque maschi, per i quali però nutrì sempre un odio contro natura, tanto da allontanare presto da casa i più grandi ufficialmente per mandarli a studiare in Spagna, ma in realtà per non averli più a carico, obbligandoli così a mendicare.

Al contrario, spendeva a piene mani in vizi ed amori extra-coniugali, al punto che papa Clemente VIII l’obbligò ad adempiere ai suoi doveri di padre e marito, imponendogli di versare quanto necessario per il sostentamento dei familiari.

Ciò non fece che aumentare l’insano odio del Cenci nei confronti di coloro che teoricamente avrebbero dovuto essere i suoi “cari”, tanto che in poco tempo i figli Cristoforo e Rocco furono ammazzati da due sicari inviati dal padre il quale, alla notizia della loro morte, esclamò che finalmente poteva gustare un po’ di gioia.

Affidati i più piccoli ad una congregazione religiosa, si ritirò nella rocca di Petrella Salto con la seconda moglie Lucrezia Petroni, sposata poco dopo il decesso della prima, e la figlia Beatrice, sue prigioniere di fatto.

Oltre ad impedire che qualche buon partito reclamasse la mano di quest’ultima per non dover sborsare un’altra dote dopo quella pagata per il matrimonio della primogenita, lui stesso iniziò ad insidiarne la virtù, molestandola persino sotto gli occhi della moglie.

Non sapendo come venirne fuori, Beatrice riuscì grazie all’aiuto di alcuni servitori a far arrivare una lettera al fratello Giacomo, mettendolo al corrente delle sevizie subite.

Ricevuto il suo benestare e con l’accordo della matrigna pagò due sicari per uccidere il padre nel sonno a colpi di martello nella notte del 9 settembre del 1598 e poi buttarne il corpo fuori da una finestra per simulare una caduta accidentale.

Tutto filò liscio per qualche mese, ma le voci che iniziarono a circolare convinsero il commissario della locale polizia a far riesumare il cadavere del defunto, constatando che le ferite subite non erano compatibili con l’iniziale ricostruzione della vicenda.

Gli interrogatori della servitù, l’assassinio di uno dei sicari e la cattura dell’altro, con conseguente confessione resa sotto tortura, fecero il resto, col risultato che Beatrice e la matrigna furono rinchiuse nella carceri di Corte Savella, mentre i fratelli Giacomo e Bernardo finirono in quelle di Tor di Nona.

Sottoposta a tortura, Beatrice confessò tutto, così come prima di lei avevano fatto i familiari. Poco dopo, nonostante l’accorata arringa difensiva del celebre giureconsulto Prospero Farinacci e la produzione dei necessari elementi di prova attestanti le violenze subite dal padre, il tribunale pontificio inflisse una punizione esemplare, anche perché proprio in quelle settimane Roma era stata funestata da altri casi di violenze domestiche.

Così, l’11 settembre del 1599 una lugubre processione preceduta dai “confortatori” della Confraternita di San Giovanni Decollato accompagnò i quattro sventurati al patibolo allestito sulla piazza di ponte Sant’Angelo.

La prima a lasciare il capo sotto la spada del boia fu donna Lucrezia, non senza qualche difficoltà causata dalla sua mole robusta, seguita da Beatrice ed infine da Giacomo, al quale fu riservata la pena della mazzolatura.

Il quattordicenne Bernardo, graziato all’ultimo istante per la sua giovane età, fu comunque costretto ad assistere al supplizio dei suoi cari e poi spedito a remare sulle galere.

L’ultimo oltraggio ai danni di Beatrice si sarebbe consumato duecento anni più tardi quando, durante l’occupazione di Roma da parte dei francesi, un gruppo di soldati bramosi di bottino irruppe nella Chiesa di San Pietro in Montorio per profanare le tombe ivi contenute.

Fu aperto anche il sepolcro di Beatrice per rubare il vassoio d’argento sul quale era stato deposto il cranio della giovane, subito utilizzato da uno di quei forsennati per giocarci come se si fosse trattato d’un pallone.

“Presunto ritratto di Beatrice Cenci” di Guido Reni (1599), Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, Roma

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