Maria Rubinke è una ceramista danese contemporanea assurta a fenomeno negli ultimi tempi.

La fluttuazione emotiva del popolo digitale, infatti, e faccio riferimento particolare all’utenza dei social network, ha cominciato a dare sempre più rilievo alle sue sculture in porcellana attraverso il tam-tam di condivisioni e commenti.

È noto come l’opinione dei fruitori di social compaia spesso nelle cronache dettando indici statistici, dove però si dimentica che l’utenza dei social non è l’utenza digitale, ma ne è una parte e con ogni probabilità nemmeno la più grande.
Affermare che l’incidenza social è l’incidenza digitale sarebbe come voler guardare il mare ritagliato da una finestra: ne vedremmo un pezzo. Quando invece scendendo alla spiaggia lo potremmo vedere tutto.
Qualcuno ha detto che “la mappa non è il territorio” (il filosofo e matematico polacco Alfred Korzybsky). Ancor di più, la mappa non è il territorio quando non rappresenta la totalità di un sistema.
Le condizioni attuali, però, favoriscono pesantemente l’incisività “social” nel contesto digitale dandole un rilievo di comunicazione e quindi, con le dovute riserve, ne dovremo tenere conto.

Mi fa specie che nella pagina home del motore di ricerca il sito di Maria Rubinke sia titolato come “Maria Rubinke / Art creative”. Arte creativa è un pleonasmo, ossia una figura retorica. Cioè un artificio grammaticale volto a segnalare qualcosa che è già implicito dal punto di vista informativo e sintattico.
Dico pleonasmo, perché l’arte è creativa. Non esiste arte non creativa. Il concetto stesso di “arte” implica un processo di trasformazione originale provocata da un atto non meccanico e ripetitivo, ma nuovo.
Sottolineare che si è di fronte ad arte creativa presuppone che ci sia un’arte non creativa. È una contraddizione in termini logici.
In realtà nasconde un modo di pensare largamente diffuso tra alcuni esteti, per cui arte sarebbe tutto. Anche i pizzoccheri della nonna perché è un processo creativo. Indubbiamente lo è: ci sono pizzoccheri cattivi e pizzoccheri riusciti “ad arte”. Non è nemmeno l’effimera e breve durata di un pasto che ne determina o meno la qualità artistica, oggi assistiamo infatti ad installazioni artistiche che valgono il tempo di una mostra. Dell’installazione rimangono le fotografie e i video a memoria dei posteri.

Ma allora quando e chi decreta che cosa sia arte?
È difficile dare un parametro preciso. Perché molto è influenzato dal costume sociale, dove per sociale ci metto dentro tutto: la politica, la religione, la scienza, tutte le istanze che influenzano un’opinione massiva. Il filosofo, scrittore e poeta statunitense Henry David Thoreau disse, in senso provocatorio: “Non leggete un libro che non abbia almeno un anno” (mi sembra sia stato lui e non ricordo nemmeno dove lo scrisse). Resta valida la provocazione. C’è un invito preciso a prendere le distanze non solo dall’oggetto di riferimento, ma anche e soprattutto dalle circostanze che lo hanno portato ad essere un oggetto di rilievo. Quanto è vera la sua importanza?
Lo è solo nella misura in cui riflette la necessità e il disagio del momento? Arte è dunque solo il riflesso della società del momento?
Ma allora El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Miguel Cervantes o La divina commedia di Dante sono arte tanto quanto l’ennesima biografia della star del momento scritta dal ghost writer di turno? Lo chiedo, perché anche il ghost writer (si chiama così lo scrittore che scrive per chi non sa scrivere) ha dato luogo a un processo creativo.
La Guernica di Picasso è arte tanto quanto l’ultimo disegno del nipote di Cirillo Caio? Perché anche nel disegno del nipote c’è un processo creativo.
Metropolis di Fritz Lang è arte tanto quanto Blade Runner 2049?
O non sono forse, il primo un successo di costume dettato da una discutibile fama del momento, spesso anche di furbi intrecci di profitto e basta, il secondo l’esternazione intima e famigliare di una visione infantile del mondo, il terzo lo sfruttamento intensivo di una precedente fama?

Però il ghost writer è sugli scaffali (il libro della stelletta, di lui non si saprà mai nulla), lo scarabocchio è (giustamente) applaudito dagli zii, il sequel ha incassato quasi il doppio del budget messo a disposizione.
Dunque che cosa sia arte è sancito dal pubblico e dall’incasso?
Ma: gli strumenti utilizzati per diffondere l’esistenza del prodotto hanno dato visibilità solo a questo determinato prodotto, o categoria di prodotti di bassa qualità, o hanno creato la possibilità di leggere e vedere anche altro? Quanto conta la massiccia pubblicità a un prodotto perché il pubblico riesca veramente a poter scegliere? O non è forse vero che dove c’è possibilità di profitto là si dirigono strutture e forze per potenziare la comunicazione e influenzare l’opinione pubblica?

Oggi, come ieri, Vincent van Gogh sta facendo la fame.

Torniamo a Maria Rubinke e alla sua arte creativa, ma prima di tutto vediamo da dove trae origine.
La ceramica rientra nelle cosiddette “arti decorative”.
La Danimarca ha una lunga storia vascolare, così è l’aggettivo che definisce la ceramica, la quale può essere a pasta compatta come la porcellana e il gres, o a pasta porosa, come la terracotta, la terraglia e la maiolica.
In Europa si conosceva l’esistenza della porcellana di Cina fin dalle relazioni di Marco Polo nel 1295, e divenne ricercata e pagatissima per tutto il Trecento e il Quattrocento. Nel Cinquecento ci furono i primi tentativi di imitazione in Italia, che si moltiplicarono nel Seicento quando l’Olanda cominciò una regolare importazione di vasellame cinese e alcuni vasai olandesi crearono un’imitazione in maiolica, chiamata impropriamente “porcellana olandese”.
Nel periodo compreso tra la caduta della dinastia Ming (1664) e l’avvento di Manchu K’ang-hsi si ebbe una temporanea interruzione delle importazioni, che ripresero nel 1700 circa ad opera di compagnie inglesi e francesi, stavolta importando anche produzione giapponese. I primi trent’anni del Settecento furono all’insegna di un nuovo tipo di imitazione che influì perfino sulla stessa produzione cinese. È da questo momento che la produzione europea di porcellana cominciò ad acquistare un carattere indipendente, perché nel frattempo il segreto chimico della sua composizione venne scoperto dall’alchimista tedesco G. F. Böttger, scoperta in seguito alla quale venne fondata la manifattura di Meissen, la prima manifattura di porcellana dura europea.
Questo scatenò una corsa tra regnanti e nobili perché il possesso e l’esibizione di porcellana erano ritenuti indispensabili attributi principeschi. Nonostante l’assoluto divieto a Meissen di divulgare il segreto di fabbricazione, nel 1718 si registrò l’impianto di una manifattura a Vienna, a cui ne seguirono altre un po’ in tutta la Germania, complice il rallentamento della produzione di Meissen durante la Guerra dei sette anni e la divulgazione delle ricette ad opera del viennese J. J. Ringler. In seguito vennero aperte manifatture a Venezia e da lì in altre zone d’Italia, e a ruota manifatture un po’ in tutta Europa.

La Danimarca si inserisce nel 1775 con l’apertura della Regia Fabbrica di Porcellana, oggi comunemente nota con il marchio Royal Copenhagen, fondata dal farmacista Frantz Heinrich Müller.

La sua produzione caratteristica fu l’uso del blu cobalto su sfondo bianco, con decorazioni stilizzate geometrizzanti e spiraliformi, o floreali, che si manterranno identiche nel tempo seppure adattandosi alle epoche.
A metà Ottocento lo scultore della Manifattura, Vilhelm Grøndahl, fondò una sua personale manifattura, la Bing & Grøndahl, focalizzando l’attenzione sulle figure in bisquit dello scultore danese neoclassico Bertel Thorvaldsen. La porcellana di tipo bisquit è una porcellana che presenta un aspetto opaco, bianco, marmoreo, adatto alla rappresentazione di statuette, soprammobili, etc.
Di Frederik August Hallin, artista della Bing & Grøndahl, sono invece i caratteristici piatti di Natale con l’anno inciso in pasta o di altra commemorazione che iniziarono a essere prodotti nel 1895, e che nel 1908 anche la Royal Copenhagen iniziò a produrre.

La tipicità della produzione danese sta, ancora oggi, in quella particolare sfumatura simile all’acquerello che si ottiene mediante l’applicazione dello smalto prima della cottura, e non dopo, oltre ad artifici ottenuti mediante decori in rilievo o a traforo. I soggetti possono variare dal paesaggio alle figure di persone o animali.

Moderno esemplare di manifattura Royal Copenhagen: Amager girl
Piatti di manifattura Royal Copenhagen
Manifattura Bing & Grøndahl: vaso su design di Hallin
Il primo piatto natalizio della Manifattura Bing & Grøndahl: Behind the Frozen Window, 1895
Manifattura Bing & Grøndahl, metà Ottocento (1845?)

Dalle immagini appena viste, appare chiaro come Maria Rubinke abbia raccolto con estrema fedeltà l’eredità della produzione nazionale, forse più influenzata dalla manifattura Bing & Grøndahl che non da Royal Copenhagen.

Al blu cobalto si è sostituito il rosso sangue. All’atmosfera classica e armoniosa si è sostituito il suo opposto, un fiabesco in salsa orrifica. Ma la linea è sempre morbida e piena, in perfetta sintonia con la tradizione. E il campo bianco, immutato, è anzi esaltato. La rottura sta nel rosso o nel colore, e nella rappresentazione della rottura stessa.
Rottura con la tradizione?
Le immagini iniziali che riportano opere di Maria Rubinke sono quelle che per lo più hanno destato la sorpresa nel web.

La produzione offerta in visione da Maria Rubinke stessa, nei primi due anni, cioè il 2008 e il 2009, presenta varie alternative: al posto del rosso c’è l’oro o si vedono piccoli oggetti inseriti, per lo più a trafiggere una parte del corpo, o tecnica mista con inserimento di materiale diverso dalla porcellana. I soggetti sono animaleschi o umani. Talvolta il nero si unisce all’oro, a volte al rosso, in alcuni compare del rosa frammisto a oro. A volte è presente un solo colore.

Model child, 2009
Head’ up, 2009
Power to the people, Power addict, 2009
Devil in desguise, 2009

Nel 2010 compaiono scenografie più o meno rudimentali come basi di appoggio per creare un’ambientazione, le figure sono antropomorfe e zoomorfe ma spesso un elemento è corrotto dal grottesco e non è più l’oggetto reale rappresentato. Molto nero e rosso, l’oro non c’è quasi più.

Wannabe mermaid, 2010
Untitled, 2010
My LSD (Little smiling devil), 2010
Head of the game, 2010

Il 2011 lo abbiamo visto in Open mind, all’inizio, qui di seguito nella versione a figura intera. Dello stesso anno esistono altre due opere, una delle quali raffigura un elefante.

Open mind, 2011

Come per l’anno precedente anche il 2012 vede per lo più figure antropomorfe nell’aspetto di bambini. Molto rosso, meno nero.

Introspection, 2012
Till the last drop, 2012

Dal 2013 al 2016 le seguenti immagini riportano alcuni dei suoi ultimi soggetti. Si vedono anche versioni multiple dello stesso soggetto, soprattutto quando la produzione è più esigua.

Mother nature, II, 2013
Take on/off, 2014

La seguente porcellana è atipica perché riprende pari pari una miniatura giapponese, chiamata netsuke. Qui la novità si risolve nella titolazione.

In between, with a fadind dream, 2014
Stay the course, 2015
Point of view, 2016

Ora è facile capire, dopo aver visto buona parte della produzione dal 2008 al 2016, perché parlavo di fiabesco orrifico, e non potessi esprimermi in termini di solo iperrealismo o solo grottesco, dove il secondo identifica una condizione anormale in cui la reazione di chi assiste può andare dal riso all’indignazione. Ma dovessi invece parlare di orrore o terrore.
(Sulla differenza tra terrore e orrore ho sempre presente la bellissima e lucida definizione di un conoscente, che la identifica con genio nell’effetto che produce: “il terrore fa gridare, l’orrore è muto”).

Del fiabesco sono chiari i richiami all’Alice di Lewis Carroll, del cinematografico i pagliacci di Stephen King e Gli Uccelli di Alfred Hitchcock, ma altri ancora sono gli elementi che traggono origine da più mezzi espressivi, senza contare le incursioni in altre culture.
Mi dispenso dal dare giudizi in merito alla qualità artistica delle porcellane di Maria Rubinke, in modo tale da poter arrivare alla conclusione. È evidente, però, che la ceramista non vuole fermarsi a uno sviluppo meramente decorativo o artigianale, ma affermare l’idea di scultura.

Registro una pittura e lascio al lettore decidere.

Hieronymus Bosch: Il Giudizio universale, 1482 ca., dettaglio del pannello centrale (Accademia di Belle Arti, Vienna)

Premesso che oggi l’orrifico vende bene, e premesso che le immagini di porcellane girate nei social network sono quelle iniziali senza didascalia pubblicate nel presente testo (quindi le discussioni sono avvenute non su ranocchi e cervi ma su bambini), introduco una piccola parentesi che stavolta non è artistica e nemmeno sociale, ma di carattere psicologico seppure in ambito letterario.

C’è un’ampia letteratura psicoanalitica sulla fiaba, dettata dal fatto che la fiaba si serve di simboli tradizionali e folcloristici per spiegare le dinamiche della vita e della morte. Il bambino che ascolta la fiaba di Cappuccetto Rosso, per esempio, si immedesima e prova terrore quando il Lupo mangia Cappuccetto. È necessario che provi terrore perché, se non lo sperimenta, non sa riconoscere il Lupo e non saprà riconoscerlo nei Lupi che incontrerà nella vita. La fiaba, cioè, catalizza le paure, i terrori, gli orrori della vita in generale e quelli personali del bambino, glieli mostra all’interno della storia fiabesca con una personalità ben precisa indicandogli anche il modo per superare gli ostacoli interiori ed esteriori.

Ma oggi la fiaba per il piccolo è stata edulcorata da ogni evento scioccante. Sembra quasi che il bambino vada protetto persino dalle fiabe: rivisitazioni attuali mostrerebbero per assurdo un Lupo amico e compagno di giochi, tutto va sempre bene, non succede niente di veramente pauroso e il mondo è stucchevole e zuccheroso. Come sono stucchevoli e zuccherose le immagini che accompagnano questo tipo di “fiabe”.

Il mondo non è zuccheroso, le fiabe che non muovono passioni grandi non sono verosimili e non permettono di conoscere la vita.
Non c’è quindi da stupirsi se poi l’orrido e il terrore, la violenza, e nelle sue forme deteriori lo splatter, migrino appena subito nella fase successiva di crescita nel videogioco o nel cinema, o anche nel fumetto, il primo uno degli imputati massimi spesso nel mirino censorio e additato come causa di violenza giovanile (in realtà una cartina al tornasole e un calmiere alle tensioni interiori).
Di fatto, se si mette a tacere un canale o lo si vilipende (la fiaba, necessaria ad accompagnare i primissimi anni di vita), i suoi contenuti vitali trasmigrano in altri canali.

Da tempo, ormai, c’è anche una diffusa informazione periodica che allarma sui bambini di oggi, perlomeno quelli che vivono nelle cosiddette zone agiate o civili, pubblicando indici statistici di progressivo disagio mentale.

A questo proposito è vero che i parametri in gioco per fare deduzioni passibili di una qualche logica sul perché sono molti: famiglie impossibilitate a dare tempo al figlio per la necessità primaria di dover pensare a un minimo di sussistenza economica, la delega all’educazione a persone diverse dalla famiglia stretta spesso ancora prima dei primi tre anni che sono invece fondativi, un malinteso senso d’amore che tutto permette pur non di rendersi difficile la vita, un’eccessiva protezione che sottrae il bambino alle proprie responsabilità e alla realtà, una stressante irreggimentazione per cui un bambino deve sottoporsi a una dieta ipertrofica di competenze durante quello che dovrebbe essere invece il suo tempo di gioco (lo sport non è gioco, il gioco si fonda sulla libera scelta dei più intimi desideri ed è necessario e complementare nella ricerca delle proprie potenzialità, quindi ha importanza anche per il futuro), il supposto credito che piccole e innocue anomalie psicologiche (che in teoria dovrebbero fare la diversità e la ricchezza dell’essere umano) siano invece reputate addirittura patologiche e come tali da curare.
Non mi stupisce, quindi, l’attenzione massiva degli adulti di fronte alle porcellane orrifiche di Maria Rubinke, immediatamente catturata dall’oscenità impressa sulle figure infantili, e che hanno suscitato reazioni contrastanti di disgusto, dissenso, attrazione, clamore, molta perplessità.
Forse a questi adulti agitati nel profondo sono state raccontate troppe poche fiabe. Ma si può sempre riparare.

Cappuccetto rosso illustrato da Walter Crane (The Blue Beard Picture Book; Londra, G. Routledge, c. 1875)

Per l’ossessiva trasmigrazione infantile, per la serialità monotematica e maniacale non solo dell’argomento ma all’interno di uno stesso unico soggetto, per l’innesto facile e rudimentale, per il carattere e l’ottica grafica a senso univoco, nelle porcellane di Maria Rubinke ci vedo più il tentativo di un superamento personale che non la ricercata e compiuta oggettivazione artistica, ma forse il suo obiettivo è solo una denuncia. D’altro canto, trovare il filone che tira potrebbe essere controproducente per un’evoluzione grafica di più ampia portata, e incatenare.
La ceramista ha comunque un percorso ancora molto giovane, questa è la sua prima produzione. Nel 2008 studiava ancora alla School of Glass and Ceramics di Bornholm, e a volte occorrono anni per destrutturare l’appreso e trovare una propria struttura originale.

Concludo dicendo che i miei vogliono essere solo spunti. Racchiudere all’interno di un solo articolo storia della comunicazione, teoria e storia dell’arte, costume sociale, psicologia e anche semantica, rappresenta un mio punto di vista e di analisi. Un punto di vista prismatico, fuori di moda oggi dal momento che all’individuo è richiesto il contrario, cioè una specificità e uno specialismo (spesso acefalo) che invece, a mio avviso, poiché dà rilievo solo al particolare e delega ad altri gli innumerevoli altri particolari, al singolo fa perdere la possibilità di una visione globale delle cose.
Perché l’interdisciplina (anche solo mentale, non necessariamente applicata), venga osteggiata e svilita a me pare chiaro.

Forse per questo la tendenza artistica o, meglio, la supposta tendenza artistica di oggi, trovandosi di fronte a una società afflitta da specificità e particolarismo, o registra una compulsione monotematica, oppure dà luogo sempre più a commistione di generi, spesso pasticci slegati senza unitarietà, ma comunque un riflesso del desiderio di trovare un timone interiore, un parametro che permetta la comprensione generale di qualcosa.

Però più parti non danno luogo al totale. Perché ci sia un totale occorre imparare a interpretare e collegare le parti, e poi trasformarle in una unica sostanza finale che non è più le parti. In questo esito finale sta il ruolo creativo della persona compiuta. Nell’arte, per stare sul nostro, come nella vita.

 

 

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