I manga e gli anime di ieri mi piacevano particolarmente perché ne percepivo l’amore che mostravano verso l’America e la cultura occidentale in generale, pur rimanendo giapponesissimi.
Per essere precisi, l’America aveva letteralmente travolto con la sua influenza gli autori di manga e anime. E i giapponesi percepivano come esotica e interessante anche la cultura europea.

Pensando agli anni ottanta, cosa viene in mente? Alti(ssimi) palazzi di città, futuro a portata di mano, benessere, musica, un che di space fantasy, belle auto, belle donne, spalline, palme, muscoli, nightlife, sole, cocktail, palestre, moda.

Se c’è un’opera in particolare che è riuscita a catturare quasi tutte queste voci, escludendo solo la fantascienza, è City Hunter.

AMERICA NEI MANGA E ANIME ANNI OTTANTA

Per l’America e la sua cultura popolare il fumetto di Tsukasa Hojo è una dichiarazione d’amore. A tutto il suo immaginario creato attraverso film e telefilm.
La Tokyo di Ryo Saeba è sostanzialmente una città degli Stati Uniti, e Saeba stesso è lo stalloniano Cobra con a volte uno stile pastel alla Miami Vice.

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Anche la colonna sonora dell’anime è estremamente modaiola e calata nel contesto temporale: forse è uno dei primi casi in cui è avvenuto, per quanto riguarda produzioni animate non di genere musicale.

Prendiamo, per esempio, i brani Footsteps e I want your love, o le sigle Go Go Heaven e Sara: impossibile non riconoscerci echi di brani occidentali famosissimi.
Una delle “piano song” per eccellenza degli anime è la canzone The way it is di Bruce Hornsby.
E che dire poi di Without you?

Parlando di ambientazioni, la costruzione scelta nell’anime per Ryo e Kaori ricorda volutamente all’esterno il quartier generale dei Ghostbusters: un palazzo tipico dell’America vecchio stile, di una New York gotica tanto bella quanto pericolosa.

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L’autore stesso aveva già usato la precedente opera come “banco di prova” del suo amore per la cultura americana ed europea: Occhi di Gatto, le tre sorelle che commettono furti artistici alla Arsenio Lupin sono immerse nella contemporaneità anni ottanta in stile occidentale.

Che l’America del cinema e della musica fosse diventata prepotentemente oggetto di culto lo si può vedere, tra l’altro, in una scena del cartone dove viene mostrato un oggetto raffigurante il logo dei Ghostbusters (leggermente modificato nel disegno e nel nome: Ghostbrother).

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Altro importantissimo personaggio giapponese degli anni ottanta è Ken il guerriero, di Buronson e Tetsuo Hara.
Un’opera che, pur avendo nel profondo una derivazione dalla mai superata questione atomica, deve moltissimo (escludendo filosofie e arti marziali, Bruce Lee e pessimismo) a un immaginario poco giapponese.

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Spaghetti-western, musica americana e inglese, campioni del wrestling, pellicole action e tamarre, ma soprattutto il mito australiano di Mad Max.
Il postapocalittico di Ken il guerriero è l’incubo nucleare del Sol Levante raccontato attraverso spunti ed estetica dei cult esteri.

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A fine decennio arrivò una delle opere destinate ad avere un posto fisso nell’Olimpo del fumetto: Berserk di Kentaro Miura.
Anche in questo caso, possiamo asserire che tipiche dinamiche e pensieri orientali siano stati raccontati immergendo la storia in un mondo pseudostorico occidentale, europeo e italiano nello specifico.

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Berserk deve comunque molto ai personaggi di Hellraiser e a film come Conan il barbaro, Ladyhawke, Il nome della rosa, L’amore e il sangue e forse anche L’Armata delle tenebre.

Sono tutte queste sensazioni e quella visuale anni ottanta di un medioevo ora crudele e oscuro, ora brillante e ricco, ad aver contribuito a creare un’opera narrativamente costruita su modelli nipponici.

Il manga citazionistico per antonomasia, il fantasy Bastard!!, è un caso ancora più interessante. Un calderone con dentro giochi di ruolo, musica metal, illustrazioni, reinterpretazioni di concetti, film, cartoon e chissà cos’altro.

Tra le vignette di Bastard!! potremmo trovare copertine di dischi hard rock, nomi di band e musicisti camuffati (Meta-Likana per Metallica, Bon Jovina per Bon Jovi…), religioni varie e mostri da Dungeons&Dragons.

Parlando di moda non si può non pensare all’Italia.

Dal 1987 è Le bizzarre avventure di Jojo, realizzate dal fashion victim Hirohiko Araki, a omaggiare pose e sensazioni di certo non giapponesi.


E se pensiamo che gli Stand, ossia i poteri speciali dei personaggi serie di Jojo, si chiamano Aerosmith, Oasis, White Album, Black Sabbath, Killer Queen… possiamo capire quanto l’autore sia rimasto folgorato dalle produzioni (musicali, in questo caso, e non solo anni ottanta) della scena occidentale.

Il genere space fantasy di Star Wars fece ovviamente scuola (vedere Drakuun di Johji Manabe), ma anche la fantascienza di quegli anni era riscontrabile in opere dal look futuristico e fluo.

Dirty Pair di Haruka Takachiho è una di queste: Kate e Julie, protagoniste di alcuni racconti illustrati chimati light novel, sono due “risolviproblemi” che in realtà causano maggiori danni.
Il loro successo porta le due ragazze nei cartoni animati giapponesi e persino in una serie di fumetti americani in stile giapponese realizzati da Adam Warren (alcuni li abbiamo letti in Italia su Man-Ga!).
Il cerchio sembra chiudersi.


Anche il poliziesco all’americana, quello dei telefilm urban e action, venne assimilato dai giapponesi: i manga Mad Bull 34 e Banana Fish sono due esempi chiave.


L’onda lunga della cultura dominante occidentale investì anche gli anni novanta: prima della crisi giapponese degli otaku, raccontata in Neon Genesis Evangelion, ci fu spazio per la passione Nba traslata in Slam Dunk e ancora per i polizieschi con Gun Smith Cats.

Il mondo degli adolescenti era rappresentato invece da titoli come Kiss me Licia o Orange Road: il quotidiano di vite che ci sembravano possibili e vicine, tranne che per ideogrammi e cibi strani.

Degiapponesizzando queste serie con un fin troppo duro adattamento italiano made in Fininvest, abbiamo avuto la riprova: funzionavano pure in un mondo anglo-italico che ribattezzava i personaggi e lasciava vaga l’ambientazione.
In certi casi sono diventate anche telefilm totalmente nostrani, con Cristina D’Avena come protagonista.


Concludendo, molte opere nipponiche degli anni ottanta, pur essendo molto spesso ambientate in Giappone, non rinunciavano a mischiare concetti orientali con icone pop occidentali, creando un mix tutto particolare andato perduto.

 

 

 

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