Solimano


“Chiunque sia fra i miei figli ad ereditare il trono, bisogna che uccida i suoi fratelli nell’interesse dell’ordine mondiale”.

Così decretò il sultano Mehmet II, che nel 1453 aveva conquistato dopo un lungo assedio, guadagnandola al mondo ottomano, la città di Costantinopoli.
Fu proprio lui che per primo mise in pratica questa regola, mandando a morte due fratelli ribelli.
Il nipote Selim I riuscì a fare di meglio, perché oltre ai fratelli fece giustiziare anche tre figli e quattro nipoti.

Il fratricidio rimase per secoli una pratica di uso comune, persino consigliata dai giuristi ottomani in nome del superiore interesse costituito dall’evitare possibili guerre civili fra principi nella lotta per la successione al trono.
In quel mondo, lo scettro del potere sarebbe spettato a chi riusciva nella non facile impresa di assicurarselo per primo a spese dei congiunti, perché questo successo era segno del favore divino.

Non diversa dalle altre fu la presa del potere, datata 30 settembre 1520, da parte di Solimano I “il Magnifico”, che fra fratelli, fratellastri e nipoti eliminò ben 18 concorrenti al trono.
Solimano ereditò un impero che già si estendeva dal Nord Africa sino ai Balcani e al Mar Nero, riuscendo a portarlo al suo apogeo in termini d’estensione territoriale con la conquista dell’Ungheria e la trasformazione del Mediterraneo meridionale in una sorta di “lago ottomano”.

Fu il primo sultano a sedersi su un trono alla maniera occidentale, dopo aver abbandonato la pratica dei suoi predecessori di starsene accovacciati su un tappeto a gambe incrociate alla maniera beduina.
La sua sala del trono doveva fungere da specchio della potenza e della ricchezza di cui godeva, per impressionare gli ambasciatori.

Pertanto, rifulgeva come uno scrigno ricolmo di gioielli, oro e pietre preziose d’inestimabile valore, in un ambiente a metà strada fra l’umano e il divino, dove l’aura di maestà si fondava su tre regole: l’etichetta, il silenzio e l’abbigliamento.

In primis, visir e diplomatici dovevano prostrarsi tre volte prima di potergli baciare il ginocchio o l’orlo del caffettano, né potevano rivolgergli le spalle o sedersi in sua presenza, ma erano costretti a restare in piedi con le mani giunte e la testa piegata all’ingiù.
Il silenzio in sua presenza era d’obbligo, tanto che Solimano iniziò a ricevere ministri e diplomatici senza proferire parola, lasciando che le comunicazioni si facessero in forma scritta o a gesti.

Quanto all’abbigliamento, il caffettano di velluto, raso o broccato di seta era la norma, con l’aggiunta di un quantitativo crescente di fili in oro a seconda del rango di chi l’indossava. Meritato dunque fu il soprannome di “Magnifico” che Solimano si guadagnò per lo splendore della sua corte.

In campo militare, scottato dalla sfortunata spedizione in Austria, preferì affrontare il suo acerrimo nemico, l’imperatore Carlo V, nelle acque del Mediterraneo, contando anche sull’interessato aiuto dei più indisciplinati fra i suoi sudditi: i pirati barbareschi stanziati sulle coste nordafricane.

Le predatorie imprese di formidabili ammiragli quali il “Barbarossa”, Dragut e “Uccialì” (alias: il calabrese Giovanni Battista Galeni) caratterizzarono buona parte del XVI secolo, costituendo una costante spina nel fianco per le città costiere della nostra penisola, specie sul lato tirrenico.

Il primo vero dispiacere a Solimano lo diedero i Cavalieri dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni che, sotto la guida del Gran Maestro Jean Parisot de la Valette, nel 1565 riuscirono a resistere per ben 115 giorni asserragliati nelle loro fortezze maltesi, alle soverchianti forze ottomane, che alla fine furono costrette a ritirarsi.

Quando morì per un colpo apoplettico all’età di 72 anni, il 6 settembre del 1566, Solimano si trovava ancora una volta al comando delle sue truppe, nei Balcani.
Per lasciare a suo figlio Selim II il tempo necessario per disbrigare le solite pratiche successorie (cioè per lo strangolamento dei fratelli) il gran visir ordinò che il suo corpo fosse imbalsamato, sistemato nel cocchio imperiale e ricondotto in patria come se fosse stato ancora in vita.

La pratica del silenzio cui aveva abituato tutti, certamente facilitò il buon esito dell’operazione.

 

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