Parigi. Da alcuni mesi una banda di malviventi opera in totale impunità commettendo crimini di efferata violenza. Robert Mancini (André Dussolier), direttore della polizia giudiziaria, ha dichiarato a chiare lettere ai suoi due più stretti collaboratori, Léo Vrinks (Daniel Ateuil) e Denis Klein (Gérard Depardieu ), che chi riuscirà a sgominare la banda prenderà il suo posto. I due, un tempo grandi amici, sono ormai distanti su tutto, separati per sempre dalla vita, dal lavoro, dai loro uomini e dall’amore per la stessa donna, Camille Vrinks (Valeria Golino). Ormai tra loro è guerra aperta. Senza esclusione di colpi.

Sembra la trama di un film d’azione, o di un classico poliziesco alla Affari sporchi, ma in 36 Quai Des Orfèvres, pur solcando la tradizione del polar, il regista ed ex-poliziotto Olivier Marchal travalica i limiti imposti dal cinema di genere e ci propone una storia dove in primo piano vengono messi gli esseri umani con i propri difetti, con le proprie passioni e con la propria umanità.

La storia è semiautobiografica, ed è dedicata al capitano Dominique Loiseau, morto in un conflitto a fuoco nel 1989, della cui squadra Marchal faceva parte. Una testimonianza in diretta, quasi una versione dei fatti, nella quale i volti scavati di Auteuil e Depardieu ci narrano il peso di scelte sbagliate facendole vivere e palpare. Anche Dussollier ci mette del suo, impassibile e di circostanza fino alla fine, anche di fronte ai drammi e ai sentimenti. Valeria Golino, pur non essendo un personaggio centrale, sostiene molto bene la propria parte come motore della vicenda.

La storia è condotta con sensibilità e senza compiacimento, le battute sono scarne ed efficaci; le situazioni drammatiche non scadono mai nel mélo o nel ricatto emotivo, ma in alcune sequenze le emozioni si fanno strada, andando a toccare sentimenti elementari e inalienabili. I personaggi sono fin troppo umani, e l’autore scava nelle loro personalità mostrandone tutta l’ambiguità e i limiti.

Depardieu è grandioso nella parte del poliziotto senza scrupoli disposto a tutto, ma veramente a tutto, pur di raggiungere una posizione di potere. Insolitamente baffuto nella prima parte del film, sembra un cowboy uscito stanco da mille duelli, e riesce perfettamente a ritrarre il poliziotto sconfitto nelle proprie aspettative che tenta l’ultima carta per raggiungere almeno nell’apparenza quella grandezza che non ha mai avuto. Nella seconda parte, sbarbato e ripulito, è magnifico nella parte del politico corrotto e senza scrupoli. Ma riesce a farci percepire anche la sofferenza del suo personaggio, dilaniato tra rigurgiti di sentimento e ambizione senza freni.

Dussollier ne è il perfetto contraltare, e ci fornisce una chiave di lettura della realtà attraverso la politica, con poche, chiare e piccanti battute. Paternalistico e indifferente come chiunque abbia imparato a coltivare il pelo sullo stomaco per andare avanti. Con buona salute della digestione.

Il personaggio di Auteuil, invece, di peli non ne ha neanche sulla lingua, e sarà questo a metterlo nei guai. Con la sua faccia da pugile suonato e l’aspetto dimesso, ancora più crepuscolare che ne Il figlio perduto, è un uomo spezzato che combatte ancora i mulini a vento, rischiando di esserne spazzato via. Al punto che, quando potrebbe essere libero, sceglie di perdere per la seconda volta tutto ciò che già gli era stato sottratto.

I comprimari sono tutti perfettamente in parte, e forniscono ottime prove di recitazione, mentre la regia è curata e perfettamente funzionale, al punto da far invidia a molti registi americani. La violenza è mostrata in maniera asciutta, mai gratuita, e il ritmo sa essere incalzante pur senza premere sull’acceleratore come avrebbero fatto negli USA. Le immagini immergono perfettamente nella vicenda, facendoci dimenticare per quasi due ore dove ci troviamo.

Ma la vera forza del film è la sceneggiatura (dello stesso Marchal), asciutta, essenziale, priva di sbavature, con una struttura impeccabile, personaggi delineati perfettamente e dialoghi che possiedono una forza e una credibilità rare nel cinema d’oggi.

La prevedibilità del finale di 36 Quai Des Orfèvres è perdonata dal tessuto della vicenda, e non è comunque fuori luogo.
Da vedere assolutamente.

 

Di Heiko H. Caimi

Scrittore e sceneggiatore, insegna scrittura creativa dal 1999. È tra gli organizzatori e presentatori della rassegna letteraria itinerante "Libri in Movimento" ed è direttore editoriale della rivista letteraria "Inkroci". Ha collaborato con la casa editrice Tranchida dal 2007 al 2009 come docente di Scuola Forrester e come membro del CdA e redattore del comitato editoriale, nonché come autore sulle riviste telematiche “Gluck59” e “Tenekè”. Ha collaborato come autore di novelle con gli editori Mondadori e GVE e pubblica racconti, articoli, recensioni e poesie con diverse riviste telematiche. Ha partecipato come poeta alla VII Edizione della Carovana dei Versi nel 2012-2013, e sue opere sono state pubblicate nel 2013 all’interno dell’antologia edita dalla Casa Editrice Abrigliasciolta di Varese. Ha tenuto corsi di scrittura e di sceneggiatura presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano, presso l’I.I.S. A. Lunardi di Brescia, in svariate biblioteche e associazioni del comprensorio bresciano e in alcune scuole svizzere. Un film per cui ha scritto la sceneggiatura è stato opzionato due volte e ha collaborato come sceneggiatore a una produzione internazionale (“Haiti Voodoo”, 2011). In un lontano passato ha suonato in svariati gruppi musicali e ha collaborato a numerosi cortometraggi. Attualmente vive e lavora a Brescia. Dal 2002 è Presidente di Magnoliaitalia e dal 2013 è docente e direttore della Bottega della Scrittura di Brescia, scuola professionale per scrittori.

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