Abbiamo voluto rendere omaggio a un genere molto praticato in Italia, soprattutto nel periodo d’oro del nostro cinema. Il thriller ha come protagonista un assassino seriale che in alcuni casi continua a uccidere per eliminare i testimoni. Certi titoli sconfinano, per gli omicidi sanguinosi o per le atmosfere che li permeano, nell’horror, e in questo genere vengono spesso inseriti. Ci sembra però che un film per essere ascrivibile all’horror debba avere altre caratteristiche: per esempio, essere incentrato sulle gesta di una creatura mostruosa o su esseri sovrannaturali. E non è il caso dei film presi qui in considerazione, diretti da maestri come Dario Argento, Mario Bava e Lucio Fulci.

 

Sei donne per l’assassino (1964), di Mario Bava
Ambientato in epoca moderna, il film comincia a mostrare quelle che saranno le caratteristiche peculiari (grande tensione, violenza efferata, omicidi creativi) del genere nostrano. In un atelier (in un primo momento doveva intitolarsi L’atelier della morte) un misterioso assassino uccide una modella. Bava ha la felice intuizione di dotarlo di un look particolare: guanti neri, soprabito nero, volto mascherato. La sceneggiatura, scritta dal futuro regista Marcello Fondato insieme a Giuseppe Barilla e allo stesso Bava, è abbastanza vecchio stile e in linea con gli horror di quel periodo, ma l’idea del doppio assassino e soprattutto le soluzioni visive adottate dal regista, attento soprattutto alla “coreografia” dei delitti, ne fanno il prototipo di molti thriller non solo italiani.

La corta notte delle bambole di vetro (1971), di Aldo Lado
La scomparsa di alcune ragazze dà inizio alla intricata, sulfurea e interessante storia raccontata da Aldo Lado nel suo film d’esordio. Il tutto è rievocato dal protagonista, un giornalista, il cui corpo viene rinvenuto in un giardino. L’uomo in realtà è solo apparentemente morto. Steso all’obitorio, cerca di ricordare ciò che gli è accaduto e spera che i medici si rendano conto che lui è ancora vivo. Lado, anche sceneggiatore, cerca una via diversa dai soliti assassini guantati, e il tentativo gli riesce piuttosto bene, anche grazie a un’ambientazione in quel di Praga e a un’atmosfera paranoica che rimanda a Kafka. Il film avrebbe dovuto intitolarsi Malastrana, dal nome di un quartiere della capitale ceca, ma i produttori vollero un titolo che attirasse di più il pubblico.

https://www.youtube.com/watch?v=_EdC5N0YITc

Non si sevizia un paperino (1972), di Lucio Fulci
Dagli stilemi del genere si discosta abbastanza nettamente Fulci, che realizza con Non si sevizia un paperino il suo film più duro e provocatorio, e anche quello che forse più di ogni altro dimostra quanto Fulci usasse il genere per raccontare vicende particolarmente forti. Fu lo stesso regista a definirlo un “giallo atipico”, perché ambientato in un paesino del Sud dove il progresso si scontra con l’ignoranza e la superstizione. Il terrore è, in questo caso, tutto nella descrizione di personaggi trasfigurati dalla vena polemica del regista. Di suspense ce n’è poca, in compenso l’efferatezza del massacro della donna considerata una strega è ancora oggi insostenibile, e la figura del prete che uccide i bambini per preservarne la purezza realmente inquietante. Il regista è anche autore del copione insieme ai suoi sceneggiatori di fiducia, Roberto Gianviti e Gianfranco Clerici.

Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? (1972), di Giuliano Carnimeo
Prodotto da Luciano Martino e scritto da Ernesto Gastaldi, è un thriller solo apparentemente minore. Un maniaco semina il terrore uccidendo giovani donne in un condominio. La polizia indaga, finché scopre che il colpevole è il più insospettabile. Come spesso accade ai gialli scritti da Gastaldi, prevale l’aspetto investigativo e la narrazione è contrassegnata da una sequela di false piste. Per esempio, la protagonista Jennifer (Edwige Fenech) è inizialmente perseguitata dall’ex marito, uno dei possibili indiziati fino a quando non viene trovato morto. Comunque Carnimeo riesce a creare una buona atmosfera e, in alcune sequenze, una suspense accettabile.

I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), di Sergio Martino
Prodotto da Carlo Ponti, è stato distribuito negli Stati Uniti con il bel titolo Torso. A proposito di titoli, va detto che il regista aveva scritto il soggetto intitolandolo Rosso come l’amore Nero come il terrore, e poi aveva pensato al più attinente I corpi non presentano tracce di violenza carnale (l’assassino, infatti, è impotente). Al centro della vicenda c’è un terribile maniaco che uccide prima una coppietta, poi una studentessa. Quattro compagne della ragazza, terrorizzate, si recano in una isolata casa in collina. Ma l’assassino arriva anche lì. Soprattutto la seconda parte è realizzata con un magistrale senso della suspense e con un’accuratezza visiva davvero notevole. Senza contare che ha, senz’ombra di dubbio, influenzato parecchi registi americani.

Cosa avete fatto a Solange? (1974), di Massimo Dallamano
Il bravo (e sottovalutato) regista Massimo Dallamano, ex operatore, sceglie come ambientazione un esclusivo collegio femminile londinese. Tre studentesse vengono barbaramente uccise, e la polizia sospetta un professore che aveva una relazione con una di loro. Quando il professore viene scagionato comincia a indagare per conto proprio. Dallamano riesce a creare un’atmosfera morbosa e cupa, in perenne equilibrio tra un ambiguo voyeurismo erotico (molte le nudità femminili) e la lucidità analitica del giallo. Tra le varie giovani attrici troviamo Camille Keaton, protagonista poi nel 1981 di un altro film di culto intriso di sesso e violenza, Non violentate Jennifer, di Meir Zarchi.

Mio caro assassino (1975), di Tonino Valerii
Uno dei più riusciti film con pazzo omicida del cinema italiano. La vicenda inizia con un investigatore delle assicurazioni che sta indagando sul rapimento e l’omicidio di un industriale e della sua bambina, e che viene ucciso. La polizia scatena una caccia all’assassino, che però continua a uccidere. Valerii riesce a mantenere una costante tensione per tutta la durata del film, e alcuni omicidi raggiungono vertici di puro terrore (la decapitazione iniziale, la maestra uccisa con una sega elettrica). Mio caro assassino è senza dubbio uno dei thriller nostrani che maggiormente ha avviato il genere verso l’horror. Le musiche, di grande impatto, sono di Ennio Morricone.

Profondo rosso (1975), di Dario Argento
Sceneggiato dal regista insieme a Bernardino Zapponi, è indiscutibilmente il miglior thriller del cinema italiano (e tra i migliori in assoluto). Argento spiegò così la genesi di Profondo rosso: «Volevo realizzare un thriller un po’ epico, con molto spettacolo (…) grande descrittività, situazioni da raccontare, immagini da legare con la musica». In effetti, il suo capolavoro è un film che ancora oggi lascia con il fiato sospeso, non solo perché realmente terrorizzante, ma per la complessità delle scelte di regia. L’uso della musica, con gli improvvisi silenzi e gli attacchi inusuali. L’attenzione quasi ossessiva per i dettagli, per gli oggetti. Gli omicidi, mai così efferati e creativi. È probabile che la genialità del film nasca dalla volontà del regista di staccarsi dalla caterva di imitazioni, spingendosi oltre sia nell’ideazione della storia che nelle scelte espressive, privilegiando la messinscena della paura rispetto al meccanismo tradizionale del giallo.

La casa dalle finestre che ridono (1976), di Pupi Avati
La figura centrale del film è infatti un pittore naif morto suicida, Buono Legnani, che dipingeva sulla propria pelle. Malato di sifilide e non avendo alcuna donna che posasse per lui, faceva egli stesso da modello anche per le figure femminili. Il giovane artista Stefano arriva in un paesino della provincia di Ferrara per restaurare un affresco di Legnani, raffigurante il Martirio di San Sebastiano, trovato nella chiesa locale. La figura del pittore è circondata dal mistero, che avvolge sia le sue opere (viene chiamato il pittore delle agonie perché amava dipingere gli esseri umani nell’atto del trapasso) sia la sua vita e, soprattutto, la sua morte. Inutile dire che il finale aperto contribuisce a fare di La casa dalle finestre che ridono uno dei thriller italiani più paurosi e sempre più vicino all’horror. La sceneggiatura, scritta da Pupi Avati insieme al fratello Antonio, a Gianni Cavina e a Maurizio Costanzo, sviluppa la vicenda ambientandola in una zona non usuale per il cinema del terrore eppure, anche grazie all’utilizzo di figure grottesche e tipiche della provincia, mantiene un’atmosfera angosciante e ossessiva.

Deliria (1987), di Michele Soavi
Il film d’esordio di Michele Soavi, ex-attore e aiuto regista di Dario Argento e Lamberto Bava, fu una rivelazione tanto da vincere il primo premio al prestigioso Festival del fantastico di Avoriaz. Una compagnia teatrale sta provando in un capannone un musical ispirato ai terribili delitti commessi da un maniaco. L’assassino fugge dall’ospedale dove è ricoverato e raggiunge il luogo delle prove, ricominciando a uccidere. Prodotto da Joe D’Amato e scritto da Luigi Montefiori, Deliria come scrisse Maurizio Porro è “una bella e visionaria fantasia”.

https://www.youtube.com/watch?v=9Sl4MGPfUes

 

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